venerdì 30 maggio 2008

Nuove proposte per il festival di Sanremo: "Zingara 2008"



Pur essendo lontanissimi dall'annuale appuntamento col Festival di Sanremo, e rileggendo le relative & cospicue recensioni di Bielle su quello passato, mi pregio di sottoporre all'organizzazione della rassegna canora nazionale questa
modest proposal in piena linea coi tempi.

Correva l'anno 1969 quando Iva Zanicchi e Bobby Solo presentarono al Festival di Sanremo una canzone che ha successivamente fatto epoca, divenendo un vero e proprio evergreen. Sto parlando , naturalmente, di Zingara, scritta per la cronaca da Albertelli e Riccardi. Chi, tuttora, non la conosce?

Dal 1969 sono passati trentanove anni. Trentanove anni fa si poteva ancora parlare degli zingari in termini romantici, in una canzone: la zingara che legge la mano e che predice il destino, gli spasimi di un amore affidati alla sua previsione. Di più: si poteva immaginare una donna sensuale abbigliata dei tipici costumi di quel popolo; che, poi, più che tipici erano spesso frutto di un immaginario collettivo. Intendiamoci: non che, nel 1969, agli zingari si volesse bene; per tutti quanti rubavano, erano brutti sporchi e cattivi, e così via. Ma, almeno, resisteva quel po' di iconografia tardoromantica a base di vita libera ("vivere come uno zingaro"), di assenza di regole, di bischerate consimilari che un po' controbilanciavano le altrettante (e secolari) stronzate relative ai Romà. Che ancora non si chiamavano rom; erano "zingari" e basta, a Firenze zìngani (termine etimologicamente più vicino all'originale greco, Athinganoi -"intoccabili", "paria"- che rimanda alla loro antica origine indiana così come la loro lingua, il romanes, è imparentata da vicino col bengalese, con il gujarati e con lo hindi).

Insomma, il signor Albertelli e il signor Riccardi potevano impunemente scrivere, nel 1969, una canzone intitolata "Zingara" e farla cantare al festival di Sanremo da due big come Iva Zanicchi e Bobby Solo. Canzone talmente gradita, che quel Sanremo addirittura lo vinse, alla grande. Sbaragliando tutte le altre! Voglio quindi ricordarne il testo, a imperitura memoria d'un tempo che fu; e ve lo fo anche ascoltare da YouTube.

Prendi questa mano,
zingara,
dimmi pure che destino avrò
parla del mio amore,
io non ho paura
perché
lo so
che ormai
non m'appartiene.

Guarda nei miei occhi,
zingara
vedi l'oro dei capelli suoi.
Dimmi se ricambia
parte del mio amore,
devi dirlo
questo
tocca a te.

Ma se e' scritto che
lo perderò,
come neve al sole
si scioglierà
un amore.

Prendi questa mano,
zingara

(strumentale)

Ma se e' scritto che
lo perderò,
come neve al sole
si scioglierà
un amore.

Prendi questa mano,
zingara,
leggi pure che destino avrò
Dimmi che mi ama,
dammi la speranza,
solo questo
conta
ormai per me.

Oggi, anno di grazia, di antirelativismo, di famiglia & sicurezza 2008, la cosa sarebbe semplicemente improponibile. Se a qualcuno saltasse l'ùzzolo di scrivere una canzone romantica su una zingara, vale a dire su una rapitrice di bambini, una facitrice di degrado, una mangiatrice di vecchiette cristiane eccetera, correrebbe il rischio di essere linciato. Ma come rinunciare al revàivol di una bella canzone nell'epoca post-Jalisse?

Suggerisco quindi il presente piccolo rifacimento & adattamento della canzone ai nuovi tempi, che incontrerà maggiormente il favore dell'italica opinione pubblica oramai evoluta e maturata verso il IV Reich: ecco a voi Zingara 2008!

Brucio il tuo campo,
zingara,
dimmi solo che benzina vuoi,
poi brucio la monnezza,
pacchetto sicurezza
perché
lo so
che ormai
nulla mi tiene

Guardo la roulotte,
zingara
brucian bene gli occupanti suoi.
Gli altri son sgombrati,
sono sparpagliati
devo dirlo
questo
fa per me.

L'hanno scritto che
non vònno li rom,
e alla luce del sole
incomincerà
il pogròm

Brucio il tuo campo,
zingara

(strumentale)

E se pure il piddì
non vuole i rom
alla luce del sole
incomincerà
il pogròm

Il campo è bruciato,
zingara,
e se occorre, lo ribrucerò
ché sono italiano,
cattolico romano,
contro l'aborto
vo a votar
Giuliano.

giovedì 29 maggio 2008

Nuova topo(difogn)onomastica capitolina



Lo scorso 2 febbraio sono stato profeta. Avevo infatti proposto di intitolare via Fra' Silvestro Maruffi, a Firenze, dove si trova la sede cittadina di una certa organizzaziunciella di gggiòvani, a Mario Carità, noto torturatore nazifascista; e lo avevo fatto con una fittizia lettera dove lo stesso fra' Maruffi protestava dichiarando di non voler avere nulla a che fare con quei simpatici ragazzotti (che ora, per altro, hanno preso a imbrattare la città con manifesti dove si propaganda la loro Casaggì, centro sociale di destra [!!!!]. Ora che il neosindaco dell'Vrbe, Gianni Alemanno in Rauti, vuole intitolare una piazza ad un altro torturatore fascista e razzista, tale Giorgio Almirante, e che gli stessi ragazzotti della capitale già sembrano aver provveduto autonomamente a farlo, mi pregio di svggerire al podestà di Roma alcune nuove intitolazioni di strade, piazze, vicoli, larghi eccetera più consoni al periodo. Ogni proposta è corredata da brevi note biografiche stile stradale, redatte secondo il "principio Dell'Utri".

1) Viale Herbert Kappler
1907-1978
Eroico ufficiale germanico

2) Via Pietro Koch
1918-1945
Martire anticomunista

3) Largo Adolfo Hitler
1889-1945
Vive per sempre nei nostri cuori!

4) Piazza Junio Valerio Borghese
1906-1974
Se l'8 dicembre del 1970…

5) Vicolo Achille Starace
1889-1945
La versione con la vocale giusta

6) Corso Hermann Göring
1893-1946
Collezionista di opere d'arte e aviatore

7) Via del Triangolo Rosso dell'Emilia
NB. Sostituisce Via del Triangolo Nero di Dachau. Fa angolo con la nuova via Giampaolo Pansa.

8. Piazza gen. Rodolfo Graziani
1882-1955
Portatore di civiltà fra i negri

9. Sordido Angiporto Pietro Badoglio
1871-1956
Niente di più per quel traditore del Dvce!

10. Piazzale dr. Joseph Paul Goebbels
1897-1945
Creatore di giuste intuizioni mediatiche

11. Lungotevere della Notte dei Cristalli
9/10 novembre 1938
NB. Tratto del Lungotevere vicino a via del Portico D'Ottavia

12. Via Stefano Delle Chiaie detto Er Caccola
1936-
E' ancora vivo ma per lui si può fare un'eccezione

13. Corso gen. Augusto Pinochet Ugarte
1915-2006
Presente!

14. Via Bolzaneto
20-21 luglio 2001
Pagina eroica della storia italiana

15. Largo Giusva Fioravanti e Francesca Mambro
Famiglia italiana di sani principi morali

Reliquiae, reliquiarum



C'è una cosa, nella religione cattolica, che non so se mi fa più sbellicare dal ridere o inorridire. Parlo del culto delle reliquie; la tibia di San Giuseppe, il fegato di san Pantaleone, la ghiandola pituitaria di Santa Cunegonda, il piloro di San Ponziano e magari anche l'uretra di San Filippo Neri. Conservate in veneratissime teche di cristallo e offerte al culto de' fedeli; pezzi rinsecchiti di corpi umani, escissioni cimiteriali che, se praticate su salme non altrettanto sante, configurerebbero agevolmente il reato di violazione e vilipendio di cadavere.

Addirittura riesumazioni intere, come nel recente caso di quel povero Forgione Francesco da Pietrelcina, che, se un giorno si risvegliasse dal sonno mortale (essendo santo, può farlo, perdìo!) e si ritrovasse attorno quella massa accaldata e isterica di ragionieri di Pontebba, di callcenteriste di Afragola e di presentatrici di pentole di Borgo Valsugana, secondo me s'incazzerebbe non poco pretendendo di tornare in una normalissima e fresca tomba.

Scrivo questo perché trovo tutto ciò semplicemente disumano. Negare la quiete della morte, spezzettare corpi, escindere organi, esporre parti che sono state vive nella loro putredine secolare. Così mi viene a mente una storia accaduta all'Elba, ma stavolta tanti e tanti secoli fa. Nei cosiddetti "secoli bui" dell'alto medioevo.

Viveva allora all'Elba, in romita solitudine alle pendici del monte Perone, un sant'uomo che aveva deciso di fuggire i mali del mondo; si chiamava Mamiliano. Non "Massimiliano"; proprio "Mamiliano". Ancora adesso, all'Elba, e solo all'Elba, è un nome ancora diffuso; io stesso ho un cugino che si chiama esattamente così. Successe insomma che, dopo che la fama di santità di Mamiliano si fu diffusa per tutta l'isola, qualche paese incominciò a contenderselo per le benedizioni e per i miracoli. Perché, ovviamente, di miracoli ne faceva; faceva vedere i ciechi, raddrizzava gli storpi, faceva cacare gli stitici e restituiva la verginità alle figliuole che l'avevano data un po' troppo presto, diciamo verso i sette anni e mezzo vista l'epoca (siamo esattamente nel V secolo dopo nostro signore Gesù Cristo).

Accadde l'irreparabile: i cavatori di San Piero e Sant'Ilario, vale a dire i progenitori di Victor Hugo, pretendevano che il santo Mamiliano fosse "loro"; ma quelli di Marciana non sentivano letteralmente cazzi e già gli dedicavano chiese e cappelle pur essendo ancora regolarmente vivo e vegeto. Il problema era che il romitorio di San Mamiliano, che più tardi fu utilizzato da un altro eremita detto San Cerbone, si trova esattamente a mezza strada tra San Piero/Sant'Ilario e Marciana. Posto migliore per suscitare casini, il povero Mamiliano non poteva averne trovato; e poiché era in età oramai più che avanzata, già principiavano certi appetiti sulle reliquie.

Avere reliquie da venerare, ora come allora, non era soltanto questione di fede. La era anche di quattrini. Una bella chiesotta con il corpo tutt'intero di un santo (e non importava neppure che fosse stato nominato ufficialmente tale da Santa Romana Chiesa) significava: gente che veniva da tutta l'isola. E la gente che veniva da tutta l'isola, magari sciroppandosi giorni di viaggio a piedi o a dorso di mulo, significava mercato. Insomma, faceva un gran comodo.

Solo che Mamiliano, a un certo punto, si ruppe i coglioni. Santo e eremita d'accordo, ma era pur sempre un sampierese e i sampieresi erano fatti di coccio anche nel V secolo dopo Cristo. Un bel mattino, senza dir nulla a nessuno, li mandò tutti in culo e, con l'aiuto di un pescatore che aveva una tartana, si fece portare a Montecristo. La quale, allora, aveva un altro nome antico che non ricordo; "Montecristo" fu chiamata poi, e proprio per il numero di eremiti che vi si rifugiavano. Lì intese vivere finalmente in perfetta solitudine e in santa pace.

Un'isola che, per accidenti della storia, è rimasta com'era allora. Chi magari mi legge e di Montecristo sa solo per via del romanzo di Dumas, mi deve immaginare a guardarmela dalle coste occidentali dell'Elba, quando si staglia con la sua forma triangolare. Non ci ho mai messo piede.

Costernati, i sampieresi, i santilariesi e i marcianesi presero atto della fuga del loro santo e si dettero pace, magari nell'attesa del prossimo bischero che voleva viver di radici e di preghiera. Come se, poi, anche tutti gli altri, a quell'epoca, non campassero di radici e di poc'altro. Mamiliano visse ancora qualche anno a Montecristo nella pace del Signore, finché un bel giorno non s'accorse che sorella Morte lo stava chiamando. Ai santi, come è noto, non piglia mai un colpo secco; o muoiono squartati orribilmente, segati in due o crocifissi nelle posture più fantasiose, oppure la Morte li avverte. Essendo che in quel posto dimenticato non poteva essere squartato, né aveva volontà alcuna di automartirizzarsi, Mamiliano udì l'avvertimento; e gli prese un umanissimo desiderio di non putrefarsi all'aria aperta o in una grotta, magari smangiato dalle capre (numerosissime sull'isola ancora oggi). Si mise a far dei segnali di fumo, i quali furono visti dall'Elba.

Gli elbani capirono immediatamente; poiché a Montecristo c'era solo Mamiliano, e poiché costui faceva dei segnali, significava che stava per morire. E si gettarono sulle barche. I sampieresi e i santilariesi dalla spiaggia di Campo, e i marcianesi da Sant'Andrea e dalla Zanca, convergendo tutti quanti su Montecristo. Nel frattempo, San Mamiliano, che doveva avere un'agonia bella robusta, s'era costruito una zattera temendo che non facessero in tempo a raccattarlo vivo, e s'era pure messo in mare.

Quando infine, poco al largo di Montecristo, fu intercettato mentre chiedeva ajuto, accadde il patatràcche. Steso com'era sulla zattera, i sampieresi/santilariesi e i marcianesi credettero che fosse oramai morto; e intrapresero una vera e propria battaglia navale a remate e bastonate, per accaparrarsene le venerabili spoglie. E furono crani spaccati, denti maciullati, bracci mutilati, remi ficcati nel culo, manate a schioppagòta, voli in mare, pedate nelle pudenda e barche affondate. Nel bel mezzo della pugna, qualcuno vide che il morto si muoveva; aveva alzato un braccio. Risvegliato da tutto quel gran casino, il povero Mamiliano aveva assistito alla battaglia che quei fedeli cristiani s'erano data per assicurarsi il suo cadavere.

Ma non fece in tempo a protestare; accortisti che l'oggetto del contendere era ancora vivo, per un momento i combattenti s'unirono decidendo di risolvere la questione una volta per tutte, per poi ricominciare a darsele di santa ragione. Da qualche parte sbucarono un paio di remi, i quali furono opportunamente stiantàti sul capo del pover'uomo agonizzante, fracassandogli la còccia e rendendolo –alfine!- un ammasso di belle, fresche e succulente reliquie.

Come spesso accade tra persone ragionevoli, una volta raggiunto lo scopo si passò dalla lotta ai conciliaboli, e fu ben presto trovato un accordo. Perché continuare a ammazzarsi, quando si poteva tranquillamente prendersi parti uguali? E così fu. Una volta a riva, si procedette al sezionamento; a Marciana finirono le gambe e qualche coratella, a San Piero il tronco e a Sant'Ilario la testa. Tutte reliquie che, in gran parte, si son perse coll'incedere de'secoli; ma qualcuna, sparsa, se ne trova ancora in alcune chiese di San Mamiliano diffuse in tutta la parte occidentale dell'Elba. Un fosso e una frazione di Campo dell'Elba si chiamano ancora San Mamiliano; l'eremo alle pendici del monte Perone è però chiamato di San Cerbone, dal nome del successivo occupante.

Vicende di secoli oscuri, certamente. Ma pensate un po' se in un futuro, prossimo o remoto, a qualcuno pungesse vaghezza di fare uno spezzatino di Padre Pio!

mercoledì 28 maggio 2008

Quousque tandem?



Se intitolo questo post Quousque tandem?, è probabile che un milanese del cazzo, un pratese cenciopolitano col SUV o più semplicemente un italiano del dumilaotto –ché in questo modo dovrei aver già detto tutto- intendano che stia per parlare di biciclette. So' belli, alla domenica, tutti questi connazionali bardati come se fossero al tour de France, con attrezzature pagate migliaia di euri, tutti pronti a tenersi in forma, perché in questo paese la forma fisica ha oramai definitivamente sostituito la forma mentis.

E allora dico: fino a quando (quosque tandem) il milanese del cazzo, il pratese col SUV, coi loro necessari corollari di marcegaglie, di montezemoli, di sacconi, di cristiani allam e d'altre consimilari emorroidi sotto abusiva forma d'essere umano continueranno a pretendere, pretendere, pretendere? Ne scrivo ricordandomi, in questa serata come al solito qualsiasi, di una persona che ho conosciuto non molto tempo fa.

L'ho conosciuto al 118, dove presto servizio. E' un ragazzo albanese, di cui non farò ovviamente il nome perché –purtroppo e contro la mia volontà- ho dovuto imparare ad essere più prudente visto che l'italica imbecillità è sempre in agguato. Comincerò col dire che, oltre ad essere di una simpatia unica, questo ragazzo è pure di una bellezza straordinaria. Anche fisica.

Sento già le voci: poiché sono già comunista, negro, ebreo, zingaro, islamico e noggròbbal, mettiamoci pure che sono anche finocchio e non se ne parli più. Inoltre sono un mortale nemico dell'istituzione della famiglia (ricordo che in ungherese il termine per "famiglia", csalad, significava originariamente "orda") e con le reliquie di padrepìe ci farei lo spezzatino. Ma quel ragazzo è veramente bello; mi ci è capitato di fare qualche servizio e un turno notturno intero terminato alle sei di mattina, in una città ancora semideserta, a ragionare più o meno di nubi.

Parla correntemente: l'albanese (sua lingua materna), il fiorentino, il serbo, il rumeno ("lì il rumeno lo sappiamo tutti") e se la cava più che discretamente con l'inglese. Su questo potete farmi fiducia, perché –albanese a parte, ma la questione in questo caso non si pone- su tutte le altre lingue sono in grado di controllare e di esprimere un giudizio. Fa l'operaio edile. Vale a dire: sale sulle impalcature, e magari rischia di volare di sotto e di finire sul solito trafiletto e nelle indignazioni di dodici secondi del popolo che poi ricomincia immediatamente a pensare alle cose che contano veramente: gli europei di pallone, il grande fratello, riccardo scamarcio (detto "scarotten" in inglese).

Mi farebbe incazzare sul serio, se succedesse. Perché mi ha detto anche quanto cazzo gli danno al mese. A uno che, alle sei di mattina, mentre si sente in animo di fare pure un servizio volontario per della gente che, poi, magari gli dà di extracomunitario che ruba il lavoro agli italiani, si mette a ragionare di Filippo Brunelleschi quando dal ponte alla Vittoria si scorge la cupola del duomo all'alba. Faccio presente che sono arcisicuro che, allo stato attuale delle cose, il 96% dei fiorentini non sa neppure che la cupola sia stata costruita da Filippo Brunelleschi.

E allora, fino a quando dovranno prevalere l'ignoranza, l'imbecillità e la protervia di un "popolo" che all'improvviso si è scoperto padrone, ma in realtà padrone del nulla, soltanto perché dei delinquenti hanno giocato a farglielo credere per i loro sporchi interessi?

Fino a quando dovremo sopportare di avere perso quel po' di anima che avevamo, e guardate bene che non sono uno che indulge spesso all'uso della parola "anima"?

Fino a quando chi un po' d'anima, in mezzo alle intemperie, la ha conservata, dovrà sentirsi un paria?

martedì 27 maggio 2008

I carbonari e la loro pasta



No, non me la hanno ancora portata quella maledetta cucina. La casa è completamente terminata, persino nelle rileccatine "alla Venturi" (non sto a spiegarvi cosa siano, e se proprio volete saperlo venite a trovarmi a casa ché la porta è sempre aperta), ma manca la cucina. Vado avanti ancora col fornello da cantiere e col microonde, e col frigorifero strapieno di bottiglie di tequila e d'ogni sorta possibile e immaginabile di troiai. Quindi, oggi, anche a mo' di disperato scongiuro, mi va di dare una bella ricetta venturiana "doc". Ogni tanto mi diverto a fare, diciamo, delle "variazioni sul tema" in ambito culinario; e questa ne è una, su un piatto che più comune non si potrebbe. La pasta alla carbonara.


La pasta alla carbonara fa parte a pieno titolo delle leggende, metropolitane e non. Tutti giurano di sapere com'è nata (il soldato americano che spiattella sulla pasta appena fatta la sua razione di uova e bacon eccetera), tutti giurano di essere in possesso della "ricetta autentica", ci sono i partiti (o fazioni) della pancetta affumicata o della carnesecca classica, chi afferma che ci vuole l'incaciata e chi invece la aborre come la peste bubbonica, e così via. In realtà bisognerebbe avere il coraggio di dire, e una volta per tutte, che la carbonara ognuno la fa come cazzaccio gli pare, fermi restando alcuni principi fondamentali (in pratica uno solo: l'uovo sbattuto). Io ne faccio una versione da molti ritenuta infernale, orripilante, immangiabile, ributtante eccetera; però, quand'ero in Francia, otteneva successo. E non so se questo sia un bene. Riporto gli ingredienti e le istruzioni per due persone delle quali una sono io; e anche se per caso vi piacesse, ve ne tocca poca. Sappiatelo.

Pasta alla carbonara "Venturi style"
detta anche "Pasta dei Carbonari" o "La bella che fa paura"

Ingredienti per 2 persone:

- 700 g di bavette
- 2 uova fresche
- 400 g di pancetta affumicata (bacon) tagliata a dadi, cotenna compresa
- 2 lattine di birra chiara
- 3 peperoncini rossi freschi interi, di quelli lunghi
- 1 bicchierino di tequila
- 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva

Preaffettare i tre peperoncini rossi freschi facendo estrema attenzione a non toccarsi (specialmente gli occhi); una volta effettuata l'operazione, lavarsi subito le mani con abbondante acqua e sapone. Sbattere le uova in una scodella assieme al bicchierino di tequila e versarvi dentro i peperoncini affettati.

Tagliate la pancetta affumicata a dadi, compresa la cotenna; fate scaldare l'olio in una casseruola e gettatevi dentro la pancetta. Girate due o tre volte, poi versate le due lattine di birra chiara. Mettere a fuoco abbastanza lento e fate evaporare la birra girando ogni tanto. La birra però non deve evaporare interamente, ne va lasciata un po' alla fine.

Nel frattempo avrete messo a cuocere le bavette secondo le istruzioni della confezione. Una volta cotta la pasta al dente, scolatela, gettarvi sopra l'uovo al peperoncino e tequila e poi la pancetta affumicata cotta nella birra. Mescolare con cura, servire e cercare di sopravvivere. Va mangiata accompagnata da una birra molto forte e bella diàccia, come una Leffe Radieuse, una Trois Monts o una Bière de Goudale.

martedì 20 maggio 2008

Al risveglio da un sogno



Mi ritrovo in uno strano pomeriggio, steso sul letto di casa. Mi sono svegliato da poco, perché un'ora e mezzo prima mi era presa una di quelle spossatezze da giornate di tempo cattivo, da giornate in cui ci si sveglia troppo presto perché il sonno notturno finisce di botto, senza una spiegazione.

Accendo la lampada di fianco a letto e prendo il libro che sto leggendo, Lavorare uccide di Marco Rovelli. Storie di operai, storie di persone morte sul lavoro. In realtà, quel bel libro l'ho già letto; me lo sto rileggendo per vedere se per caso non mi sia sfuggita una cosa, una cosa che manca, l'unica cosa che veramente manca. Una semplice frase, due parole: il lavoro ammazza. Non un dato lavoro: il lavoro. Ché la fine della morte si avrà soltanto con la fine del dover lavorare. Non l'ho trovata alla prima lettura; eppure è una cosa semplice, logica. Finire di morire quando non si dovrà più essere costretti neppure a contemplare che la propria vita sia affidata a un padrone, a un ingranaggio, a un mercato. Ché nel lavoro non può, per definizione, esservi nessuna sicurezza. Così rileggo; magari non me ne sono accorto.

E rileggo, all'inizio del libro, la storia di Andrea. Schiacciato da una pressa che serve ad imprimere scritte sui frontalini delle lavatrici e delle lavastoviglie. Si capisce cos'è esattamente? Si vada alla propria lavatrice. Sul frontale sono impressi i tipi di programmi coi relativi disegnini, le temperature attorno alle manopole, il nome della marca; queste cose le fa una macchina. Si chiama macchina tampografica. Mi è capitato persino, anni fa, di tradurre il manuale di istruzioni di una di queste macchine, in tedesco, con tutto il suo bel capitoletto sulle norme di sicurezza. Ciò serve a dare anche a me il senso perfetto dell'inutilità del mio lavoro, cartaccia che nessuno legge, stronzate a norma europea, puttanate su carta patinata. Vengo pagato per questo.

La macchina tampografica alla quale lavorava Andrea in una ditta marchigiana, perché esistono fabbriche apposite per stampare disegnini e scritte sul frontale di una lavatrice, si chiama Mag 1000. Esistono fabbriche apposite, spesso, nelle zone dell'indotto di una grande azienda; e là attorno ce n'è una, di queste grandi aziende, di quelle competitive, di quelle che tirano ancora il made in Italy. Produce, per l'appunto, elettrodomestici. Marco Rovelli spiega bene come funziona la produzione col sistema del just in time. Produzione continua, senza più scorte di magazzino. Il magazzino e le scorte costano. Coi costi non sei più competitivo, altrimenti il mercato te le fa fare, le lavatrici, in India, in Thailandia, in Cazzinculia, dove un esercito di schiavi produce prima a due soldi all'ora, e nel più perfetto silenzio. E quindi bisogna lavorare, lavorare, lavorare. Con turni massacranti. Sennò il lavoro lo perdi. Sennò, magari, ti prende la voglia di darti fuoco per la disperazione, come quel ragazzo siciliano a Torino, in questi giorni, il cui padre si era dato pure fuoco undici anni fa perché non trovava lavoro. Essere schiavo, oggi, è diventato un privilegio.

Come Andrea, anni 23. Quella macchina, la Mag 1000, non funzionava da tempo. Aveva un difettuccio, nonostante le probabili belle parole del manuale di istruzioni, in sette o otto lingue magari. La si metteva in stand-by per gli interventi di manutenzione, e quella ripartiva da sola. Così Andrea, tornato al suo turno di lavoro alle sei di mattina dopo cinque ore di sonno, è morto. La macchina non stampa più bene. Allora lui la ferma e si stende sul piano di lavoro per controllare gli inchiostri. Mentre è sul piano di lavoro, la macchina riparte. Da sola. E schiaccia Andrea con la sua pressa da otto tonnellate.

Il titolare della fabbrica e il costruttore della macchina vengono messi sotto inchiesta. Viene dato loro, praticamente, un buffetto sulla testa. E, soprattutto, la macchina non viene affatto fermata, o meglio: non viene distrutta a martellate dai colleghi di Andrea, come dovrebbe essere, come direbbe non solo la logica ma anche l'umanità. Tutt'altro. Tutti zitti. Tutti immediatamente di nuovo a lavorare. Immagino una squadra di pulitori a togliere dal piano di lavoro il sangue, i frammenti di ossa, le viscere di Andrea; e poi, via di nuovo. Il just in time non può aspettare. Appena in tempo per morire. E nessuno parla. Se si parla, si perde lo sgobbo. Se non si lavora, la ditta chiude, la grande azienda leader non ti fa più commissioni, e allora addio frontalini, addio disegnini di mastelli, addio persino ai manualetti per i traduttori.

Marco Rovelli parla di essersi reso conto di che cosa sia, o cosa fosse, la solidarietà di classe. Se ne rende conto constatando la sua assenza, la sua fine. Nessuno si ferma. Meglio riportare le sue parole, da pagina 23 del libro. "Ecco, è solo adesso che capisco veramente il senso di quell'espressione arcinota e usurata che è 'coscienza di classe'. La coscienza di essere il soggetto centrale nella catena della produzione, e la relativa pratica solidale di rivendicazione dei diritti. Qui, davanti alla Mag 1000, di fronte a questa selvaggia mano sinistra di un dio cattivo, si rende manifesta la sua scomparsa, almeno per il momento. Paura di parlare, prima e dopo. Paura di prendere la parola, ovvero di essere soggetto. Paura prima, quando si sarebbe trattato di dire 'fermiamo la macchina', e se la macchina non si ferma in nome delle sacre necessità della produzione ci fermiamo noi. Paura dopo, quando si preferisce tacere piuttosto che testimoniare, perché il posto di lavoro oggi è quasi un privilegio."

Poso il libro, e mi viene all'improvviso a mente un'altra cosa. Una cosa che ho visto oggi al telegiornale. Oggi, 20 maggio, sarebbe il nono anniversario dell'uccisione del professor Massimo D'Antona da parte delle "Nuove" Brigate Rosse.

Vedo la commemorazione sul luogo dell'attentato. Vedo facce. Veltroni. Veltroni è il primo. Viene ancor prima della vedova del giuslavorista. Parla Sacconi, l'attuale ministro, l'autore assieme a Marco Biagi del famoso Libro bianco. Vedo tutta l'attuale Italia. Il "democratico" Veltroni, il "berlusconiano" Sacconi, tutti belli pasciuti e incravattati a commemorare il morto, sotto una grossa lapide. Lingua in bocca così come lo sono in parlamento, così come lo sono quando c'è da cacciare via i rom, così come lo sono quando c'è da erodere tutte le libertà che è possibile erodere in nome del loro schifoso potere. Ed è un senso di schifo quel che mi attanaglia.

Naturalmente parlano di vittime. Parlano, loro, di non dimenticarle, le vittime. Basta che siano vittime del terrorismo rosso. In questo paese, di altre vittime non ce ne sono. Solo chi è stato ammazzato dalle Brigate Rosse ha diritto al ricordo, alla giustizia infinita, alla persecuzione senza fine dei colpevoli, alle autorevoli prese di posizione di Napolitano con relative làgrime. Per le altre vittime, non c'è nulla. Per gli Andrea schiacciati dalla pressa come per i ragazzi ammazzati dalle forze dell'ordine. Per gli operai della Thyssen Krupp o della Truck Center come per le decine di Carlo Giuliani, come per gli Zibecchi e gli Ardizzone. Nessuno più si ricorda neanche i nomi di queste persone. Ditemi i nomi dei mille e cinquecento morti sul lavoro annuali in Italia. Ditemene almeno uno se siete capaci. Ditemi se sapete chi è Ion Cazacu.

Qui deve intervenire la famosa umana pietà a calmarmi. Devo pensare al professor D'Antona, che era pur sempre un uomo disarmato con delle borse in mano. Devo pensare ai suoi ultimi momenti, a quando si è reso conto che lo stavano aspettando, a quando si è reso conto di morire. Devo mettermi nei panni di un uomo che sta agonizzando su un selciato. Devo in qualche modo controbilanciare, anche se è difficilissimo. Devo ricacciare indietro i pensieri di vendetta. Devo dirmi che la morte non risolve mai niente. Devo dirmi che nessun atto del genere può avere una giustificazione. Ma mi accorgo anche che sto utilizzando di continuo il verbo "dovere".

Pensare che mi ero svegliato, anzi ero stato svegliato da una telefonata, proprio nel mezzo di un sogno bellissimo. Uno dei più belli che io abbia mai fatto. Si svolgeva in una città dove ho vissuto fino a poco tempo fa. C'erano tutti. I miei amori, quelli passati e quello presente. I miei amici. La mia famiglia, compresi i morti. Un sogno complicatissimo, una bella casa piena di piante, l'armonia. Entravo, a un certo punto, in un appartamento direttamente con l'automobile, e tutto era normale, provocava risate di allegria. Facevo una passeggiata notturna per la città avvolto in una specie di poncho che, poi, mi sono accorto che era identico al mio copritavola peruviano. Mi fermavo a una bancarella che, in piena notte, esponeva libri religiosi, pieni di polvere. Poi mi raggiungeva mio fratello, e facevamo un giro in taxi. Scendevamo per una scalinata, al cui termine c'era una tavolata con tutti quanti, abbracciati e felici, a cantare.

La storia di Andrea è raccontata da Marco Rovelli anche su "Nazione Indiana".

lunedì 19 maggio 2008

2016: Fòra li sammarinesi!



E' ora di finìlla, diocane! 'Un se ne pòle più! 'Sti sammarinesi che rapiscono i neonati e anco li neomorti, strùpano e marzàgrano le quattordicenni, inculano le vecchine, lèvano i' lavoro agli italiani e a' forlivesi, pìpano 'velle di 'Ollesarvetti, si macchiano de' più efferati delitti in combutta con la mafia singaporegna, appartègano ar cartello di Medeglìn e di Montemurlo, stanno culeccamìcia con la triade di Sciangài co' addentellati in Corea, a Sarviano e a Popogna, tròmbano colle nipoti di dellùteri, schifàni e karfanja (grafia arbanese) eccetera eccetera, dèvano èsse levati fora dar cazzo, maddonna troja e anche paceppìe rigorosamente corroso da' vermi e reliquiato fin'a far vomitar dal puzzo di corruzïone incantramata bergamasca.

Anno dumilasedici dell'era giudaico-cristiana: è ora di fàlla finita, dé. Come se ner passato non fòssino bastati l'arbanesi, i rumeni, i romme, i maroniti, i drusi, gli herero (famosa la bimensile invasione islamica degli herero nel 2012, daccùi ir detto "meno herero, più nutella ferrero"), persino i pisani. Ci mancavano pure i sammarinesi, vera peste der dumilasèdici, delinguenti, merdajoli, coi loro campipròfughi titanici che dalla Romagna si sono via via estesi fino alle più estreme propaggini di viuzzo del Chiuso e via de' Pozzi di Mantignano (Mantinjano in grafia arbanese), e per i quali il führer Kratziano Tschjoni ha konjato l'espressione: tolleranza zerovirgolacinque. Eh. La tolleranzazzero ha fatto il suo tempo. Bisogna pur attribuïre qualcosa al partito demochràticho, sennò diomerda vìncano sempre loro!

Sammarinesi: brutti, stronzi, romagnoli, spaccapietre, peggio degli zìngani. Chi mai, vigliacca di madreterèsadiharkutta, avrebbe immaginato che ci potessero èsse degl'islàmici peggio de' sammarinesi!

Tutto ebbe inizio ner dumiladòdici quando un sammarinese di Serravalle fu beccato a strupà' una diciassettenne di Pordenone in una discoteca; seguìnne un'animata ma civile discussione nella quale persino il novello papa Bertinotto I (Bertinoctus primus) ebbe a invocare fermezza pur nel rispetto delle radici buddisto-scintoiste dell'Italja (grafia balcanica). Tutto ebbe inizio, e ora ècchice qui co' 'sti maladetti ne' loro campi pròfighi, per i quali il syndaco di Roma, Longobardo, ha promesso l'annientamento a base di ziklonbì. Ah! Non c'è limite ar peggio! Si credeva d'avé toccato ir fondo! Ma ir peggio, quello, aveva ancora da venì, come Baffone.

Le terribili giornate der maggio dumilavattòrdici, quando si scoprì –dopo una serie di trivellazioni- che la Repubblica di Sammarìno galleggiava letterarmente sur petrolio. Nessuno ci voleva créde', oh; ma quando cominciò a sgorgà anco da' rubinetti delle 'ase, fu tutt'un susseguìssegnene d'avvenimenti. Il giorno dopo la Repubblica di Sammarìno fu accusata di possedere armi di distruzione di massa; due giorni dopo era nell'asse del male; tre giorni dopo si ritrovarono in un casolare le prove dell'infiltrazione di al-Qaeda a Sammarìno; cinque giorni dopo partivano le prime risoluzioni di 'ondanna dell'ONU; gli ispettori comandati da Erbaradèi partirono immediatamente. E 'avòglia a dì che d'armi 'un ce n'erano manco a fabbriàlle: ir presidente Svarzenègghe aveva già deciso per l'invasione. La resistenza sammarinese fu piegata però sorprendentemente in quattro mesi bòni, perché le truppe ameriàne prima dovèttero cercà Sammarino sulle 'arte geogràfie e 'un lo trovavano; ne fece le spese l'innocente stato affriano dello Svazziland, che fu invaso pe' sbaglio, raso ar sòlo e risarcito 'olla promessa di 'onzistenti forniture di pessiòla. Ma tanto poi chissenefrega, erano negri.

Una vorta esportata la demograzzìa a Sammarino e abbattute le statue der dittatore ('un ce n'era, ma du' giorni prima della 'aduta fu 'nzediato come dittatore tale Bolognesi Gervasio, pensionato di anni 74, poi rigorosamente reso latitante, messo su un mazzo di carte assieme ar su' vice Sbraga Alvise, catturato e impiccato dopo regolare processo), realizzate in frett'e furia in cartongesso da una ditta di Sesto Calende, cominciò ir dramma de' profughi. Tutt'in qua! Come se 'un ci se n'avesse abbastanza! Ma dato che ir territorio sammarinese doveva essere interamente spianato per far posto a' pozzi di petrolio, l'intera popolazione si ritrovò a dovere scappare. Ma puttana dell'eva, mai che scappassero in Estonia. No. Tutti qui. E tutti delinguenti matriolati!

In breve tempo, la novella mafia sammarinese fece 'mpallidì 'vella siciliana, la 'ndrangheta, la Triade, la Iacùzza giapponese (o che ci si fanno l'idromassaggio 'olla mafia, in Giappone?!?!). L'arbanesi e i rumeni si dichiararono vinti e fecero atto di sottomissione nelle mani der presidente della Repùbbrica Federale Italiana, Carderoli. Di ròmme ormai 'un ce n'era più manco mezzo, l'ùrtimi l'avevano crocifissi vicino a Ascoli Piceno; ner contempo s'inaugurava una grande retrospettiva su Fabrizzio d'André sulle note della su' grande canzone Khorakhané, che fa pure la rima; autorità e cittadini presenziarono nella più vivida commozione per quel grande poeta.

E ora, 'sa si fa? Ributtàlli a mare 'un si pole perché 'un vengano pe' mare. La scusa della lingua 'un c'è, perché parlano italiano. E sono dappertutto! Si so' pure 'onvertiti all'islàmme! E non sèrvano i nuovi pacchetti sicurezza varati dar governo, qui l'ùnia 'osa da fa, budellaccia dell'eva schifa, è danni fòo! Tagliare tutti i ponticelli che li uniscono a noi! Se ne tornino a Sammarìno, e chissenefotte se 'unn'esiste più; se ne vadano in Ispagna che gli spagnoli so' tanto ganzi! Li mettano a Ceuta o a Meliglia, si rifacciano lì ir' su' Sammarino e 'un rompano più i coglioni! E dopo loro, i prossimi chi saranno? L'Italia agl'Italiani!

f.to
Abderrahman Berisha Costantinescu

sottosegretario alla presidenza del Consiglio

giovedì 15 maggio 2008

Buon compleanno ‘Eκβλόγγηθι !


Ebbene sì: questo blog ha compiuto un anno. A dire il vero sarebbe stato ieri, 14 maggio; ma siccome la giornata di ieri è passata tra un coma profondo per un turno notturno al 118 e visite pomeridiane alle zie di Sesto Fiorentino (anche i pluriinquisiti tengono famiglia!), proprio non ci sono stati né il tempo e né la voglia per scrivere qualcosa. 'Sto compleanno sarà quindi festeggiato con un giorno di ritardo.

A scanso di equivoci: il bambino nella foto non sono io. E' la foto di tale sig. Michelozzi Andrea di Serravalle Pistoiese, che ho reperito in rete. Gli rivolgo ovviamente molte scuse per averlo "preso in prestito" e per averlo fatto finire suo malgrado nella bloggosfera.

Ipotesi 1. Mi è piaciuta la foto per l'aria quasi spaventata del bambino davanti a una torta più grande di lui, con la candelina accesa.

Ipotesi 2. Mi è piaciuta la foto perché somiglia terribilmente a una delle Più belle cartoline del mondo del "Vernacoliere".

Ipotesi 3. Mi è piaciuta la foto combinando le ipotesi 1 e 2.

Barrare con una X l'ipotesi prescelta.

Non c'è molto altro da dire, a parte un ringraziamento (e di cuore) a tutti coloro che sono, per un motivo o per un altro, capitati qui dentro. Amici e sconosciuti, fissi o saltuari, daccordi e nondaccordi, commentatori o silenziosi. Un ringraziamento e un abbraccio forte, senza ripensamenti e senza prammatiche.

R.V.

lunedì 12 maggio 2008

Come ho espiato il delitto Moro, ovvero Confessioni di un Brigantista



Dopo un bel po' di tempo, torno a inserire qui dentro un vecchio post, a dire il vero "imbeccato" decisamente da un amico che se ne ricordava. Il post in questione risale al 25 ottobre 2003, quando mi venne la balzana idea di metterlo sul newsgroup italia.firenze.discussioni, che allora frequentavo regolarmente (ora ci capito una volta ogni tanto). In effetti, l'imbeccata del mio amico è quanto mai opportuna, in questi giorni di "trentennale", di napolitanate, di làgrime e di fìcscion televisive dedicate al fu Aldo Moro e alla sua tragica dipartita da questo mondo.

Nel post si narra in forma compiuta il mio coinvolgimento -mio malgrado!- in quello storico fatto; un capitolo francamente ignoto ai più, e che merita di essere approfondito. Ma come vi ero stato coinvolto? Lo scoprirete solo leggendo, parafrasando un verso di una nota canzonetta. Per ora vi basti sapere che ho un po' "coperto" alcuni nomi e cognomi, data l'estrema delicatezza dell'argomento; sono già, come sapete, sotto procedimento penale per il gravissimo reato di lavavetrismo e non vorrei aggravare la mia posizione. Quel che garantisco è che i fatti narrati in questo post, pur oramai lontani, sono rigorosamente veri. Vale a dire: quando la realtà supera la fantasia. Un caso tipico!

L'anno è il terribile 1978.

Un Venturi non ancora sedicenne, ma già con tutte le sue caratteristiche ben formate (comprese un accenno di barbaccia rossa e le sigarette) vaga chissà come per le aule di un liceo classico fiorentino, il bieco Dante di Piazza della Vittoria (da dove, poi, emigrerà verso il Michelangelo), uno dei templi della borghesia "bene" dove i suoi, in un accesso di furbizia, hanno voluto iscriverlo.

Naturalmente, il giovinetto si fa già notare per certe sue, diciamo, piccole e veniali intemperanze (tipo affiggere tazebao sulla sacra lapide contenente il bollettino della vittoria del 1918 o fare lo sgambetto con relativa musata in terra ad un notissimo fascione di una terza liceo); sta già assieme a una pischellina considerata -vox populi- "una brutta autonoma", peraltro conosciuta durante un'infuocata assemblea, ed incassa anche la minaccia, formulata dal babbo di un ragazzino di un'altra classe, di una denuncia per "plagio" (tutto perché avevo sobillato il fanciullo a non entrare in classe durante le lezioni di religione di don G., arcinoto fascistone in tonaca e titolare di una parrocchia da ricchi). Gli unici con cui lega, a parte la pischellina, sono tre suoi compagni di classe (che hanno poi fatto tutti una discreta carriera, al pari della pischellina) di cui non si faranno i nomi; insieme sono noti nell'augusta scuola come Il quartetto rosso o I compagni della IV A; e, disgraziatamente per gli altri, s'era tutti anche belli grossi.

A questo punto entra in scena la protagonista principale di questa storia. Una professoressa di matematica, siciliana di Favara (AG), che rispondeva al nome, un tempo tristemente noto nei licei fiorentini, di F.B.; e, a partire da adesso, bisognerà che tenti di riprodurre sommariamente la sua caratteristica parlata per la quale, ad esempio, io cesso di chiamarmi "Venturi" e divento "Fendòri".

Era costei una trista tambòcchiola d'una cinquantacinquina d'anni, butterata e pesantemente truccata, non si sa bene se più autenticamente fascista o mistico-religioseggiante, la quale terrorizzava da anni classi intere a base di polinomi misti a tirate a metà tra Achille Starace e Fra' Ginepro della banda Carità; isperimentato aveva -si dice- pure una cacciata a calci nel culo in tempi in cui la fantasia doveva andare al potere (poi al potere, come ben si sa, c'è andato qualcos'altro), sviluppandone un odio feroce per gli studenti in genere, e per quelli comunisti in particolare. E' bene specificare che, per la professoressa B., il "comunismo" iniziava dove per una persona normale s'era ancora al liberalismo storico di stampo cavurriano; un Piero Gobetti, per lei, sarebbe stato già ampiamente un comunista.

Inutile dire che tra il sottoscritto e la prof. B. ebbe a crearsi, e fin da subito, un certo qual piccolo attrito; anche perché voci di corridoio (del tutto esatte) dicevano che tale "Venturi" fosse l'autore del testo di una simpatica canzoncina che girava per tutta la Firenze liceale, nella quale detta insegnante veniva qualificata con epiteti chiarissimi e non edificanti; nonché di un altrettanto celebre manifesto illustrato in cui si invitava la popolazione scolastica ad impiccarla pe' piedi, eccetera eccetera; si aggiunga a questo che il Fendòri, allora come adesso, non capiva assolutamente una sega nelle cosiddette scienze esatte. Questo il beggràunde storico-politico-matematico; torniamo quindi alla narrazione, ed alla terribile vendetta della professoressa B. sul suo persecutore, che aveva persino osato propalare ai quattro venti che, un giorno, le avrebbe toccato il culo violando la sua mistica pudicizia.

Il 16 marzo 1978, fu rapito in via Mario Fani, a Roma, l'onorevole Aldo Moro. Dalle Brigate Rosse, che, nell'azione, uccisero i cinque uomini della scorta dello statista democristiano autore di fatto del Compromesso storico. PCI al governo con la celeberrima formula della "non sfiducia", governo di "unità nazionale", e via discorrendo. Passano cinquantacinque giorni d'inferno per tutto questo paese di merda, finché, il 9 maggio 1978, in una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, sempre a Roma ed a mezza strada fra via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, non viene ritrovato il cadavere di Moro, nel bagagliaio, crivellato di colpi. Questo, naturalmente, in estrema sintesi.

Il 10 maggio 1978 (mattinata plumbea anche meteorologicamente), sciopero generale di due ore, manifestazioni biancorosse (mi ricordo sempre lo slogan dei democristiani in piazza: "Moro è qui / Con tutta la Diccì!"), casino immane, l' "Unità" che titola "Straordinario sussulto democratico in tutto il paese". Chi c'era se ne ricorderà; chi non c'era, non posso dir niente. Il Fendòri e i suoi tre amici, V.F. e due che, curiosamente, avevano le stesse iniziali, S.G., rècansi in piazza Signoria tutto sommato da bravi cittadini quali non erano e, terminata la manifestazione tra sventolii di bandiere rosse e bianche e discorsi del cazzo (come di prammatica), si avviano verso la scuola a piedi ragionando tra di loro.

"Chi c'è alla prim'ora?"
"La B. ..."
"Ohi, oggi so' cazzi..."
(Poi si tenta di cacciar via i brutti pensieri cercando di organizzare la resistenza al golpe fascista sicuramente prossimo).

E i cazzi amari si cominciano a vedere subito all'entrata, sentendo su di noi gli sguardi di disprezzo dei compagnucci, gli insulti, i frizzi e i lazzi. Perché è chiaro che noi eravamo, come si diceva allora, "fiancheggiatori delle Brigate Rosse". V.F. tenta di far finta di nulla, il Fendòri nasconde bene in tasca il "Manifesto" e via in classe. Tutti a posto e s'aspettano gli eventi, che non tardano ad occorrere.

Eravamo sistemati tutti e quattro nei primissimi banchi a destra (collocazione dal carattere chiaramente punitivo e simbolico); questo perché, quando s'era in fondo, ne approfittavamo per fare un casino innominabile, disturbare le lezioni, lanciare aeroplanini di carta chiamati "Ottobre Rosso" o "Vendetta del Proletariato", disegnare sul muro coi pennarelli falci e martelli misti a cazzi e a juvemerda ed altre cosine del genere; indi per cui, dopo un rapido consulto, il corpo (sciolto) insegnante aveva deciso di far fronte all'emergenza tenendoci sotto tiro diretto. Entra la B., ed in classe il silenzio è glaciale.

Aria ancora più truce del solito, il porrone sulla guancia destra che sembra dover scoppiare da un momento all'altro imbrattando tutta l'aula di pus, due quintali di rossetto color merda di piccione sicuramente acquistato da un trippajo al mercato centrale, ella s'assiede alla cattedra con studiata lentezza, finge di consultare il registro per un lunghissimo minuto e poi si rivolge verso i primi banchi di destra:

"Ogia sagiète contenti, ah."

Primi sudorini freddi. Ci guardiamo interrogativi. Poi, timidamente, il sottoscritto si azzarda a rispondere:

"Contenti di cosa, scusi, professoressa...?"

"L'avete ammazzato voi."

In un attimo capisco tutto e tento una specie di concione:

"Ma...professoressa...guardi che anche noi eravamo alla manifestazione di condanna...non siamo certo favorevoli a una cosa del ge...."

"Basta, Fendòri ! E' tutta colpa vòscia, siete gòmbligi come tutti i vòsci gombagni, ah...! Tutti dei brigaNtisti siete! Dei brigaNtisti sgiossi! Si gomingia dalla sguola, ma tando finigète tutti male, ah. Tutti male, ci vorsggièbbe la galègia a vita ancu pi' voi, ah! Ma ogia basta....bisogna andage avandi ancu pi' dimostrarvi unni sta la givildà, ah! Indersgggiogazzione. "

E si rimette a scorrere il registro. Rialza la testa.

"Fendòri, giusto lei (dava a tutti del lei), è tando che non la indèrsggiogo, ah. Venga."

S.G. n° 1 mi stringe di nascosto la mano e mi avvio alla pubblica fucilazione. Decido naturalmente di farlo con estrema dignità, mi ravvio i capelli e vado alla lavagna, dove mi sento appioppare una dimostrazione di un teorema di geometria che avrebbe messo in crisi anche Euclide in persona. Ovviamente non avevo studiato una mènghia, ma bisogna morire in piedi e comincio a tracciare col gesso triangoli a caso, lettere greche, quadratini, rombi e quant'altro; lei tace. A un certo punto mi interrompe:

"Fendòri, mi dice gosa sta disegnando, ah?"

"Il teorema..."

"Guesto è il deogema di Callo Màrchese, ah. Lei non ha sdudiado niende, gome semprsgge, ah. Mi dige gosa devo fare co' lei, ah...?"

No, non gliela do vinta. Mi piglio il mio due ma ora lo vede chi è il Fendòri. Poso il gessetto, mi pulisco le mani, mi avvicino alla cattedra e le dico con arietta a presa di culo:

"Mah, non lo so, professoressa...se non sa cosa fare con me, se vuole dopo posso venire a casa sua e s'inventa qualcosa..."

E contemporaneamente le faccio un eloquente gesto con la mano destra, spingendola avanti e indietro col pugno semichiuso.

Scoppia il putiferio più totale. Accompagnato in presidenza, telefonate a casa, tre giorni di sospensione dopo un sommario processo e automatico rimandamento a settembre senza più neanche essere interrogato.

Fu così, amici, che espiai il mio crimine di brigaNtista giòsso e che decisi di cambiare aria non appena dato un pesantissimo esame di riparazione, salvato per il rotto della cuffia dalla professoressa di lettere (dato che anche allora me la cavavo, diciamo, benino con gli aoristi e le declinazioni, pur avendo fatto scena muta all'esame di matematica e geometria).

Sappiate dunque che il sottoscritto, Venturi Riccardo, ha un oscuro passato di brigaNtista coautore dell'efferato delitto Moro.

sabato 10 maggio 2008

Tutto normale


Trent’anni fa, il 9 maggio 1978, su un binario della ferrovia a Cinisi venivano ritrovati i pezzi, le briciole di Peppino Impastato.

Lo stesso giorno, in via Michelangelo Caetani a Roma, veniva ritrovato il cadavere di un presidente.

E’ naturalmente il presidente che, oggi, viene ricordato. E non solo ricordato. La “fiction” televisiva dove quel presidente viene interpretato da un attore che non gli somiglia nemmeno un po’. Le pompe magne istituzionali. E il discorso, il “commovente discorso”, di un altro presidente.

Questo presidente è uno che sa dove tira il vento. E’ il suo mestiere. Oggi ci è venuto a parlare, piangendo calde lacrime, delle vittime del terrorismo. Di “tribune” riservate a “figuri”. Addirittura di “rozze ideologie comuniste”. Lui. Non è necessario aggiungere altro. Parliamo lingue troppo diverse. Lingue che non sono né l’italiano, né l’ungherese. Non intendo parlare la lingua di quell’uomo. Non intendo rapportarmi né a lui né a figure come lui. Non intendo neppure “vilipenderlo”, e non per paura di commettere un reato. Non c’è nulla da “vilipendere”, c’è soltanto da allontanarsi. Da dire: Tu non mi attieni.

Sembra che soltanto i reparti della Celere abbiano ucciso circa 150 persone nel dopoguerra repubblicano e democratico.

E non vi sono soltanto i reparti della Celere.

Sembra che a queste vittime non sia dovuto nulla. Né “giornate del ricordo”, né un semplice ricordo. Perché le vittime dello Stato non possono essere neppure ricordate. Vietato persino nominarle.

Nessuna giornata e nessuna “fiction” per Giannino Zibecchi. Per Francesco Lorusso. Per Giorgiana Masi. Per altre decine e decine di ragazzi ammazzati dai “fedeli servitori”.

Peppino Impastato, almeno, ha avuto un coraggioso film.

Ma chissà se qualcuno si ricorda sia pure il nome di Giancarlo del Padrone. O di Adelchi Argada. Di Piero Bruno. Di Roberto Franceschi. Di Franco Serantini. Di Claudio Miccoli.

Queste sono vittime che non esistono. Sono vittime che non possono esistere. Sono vittime che non hanno e non avranno mai nessun “presidente”. Perché sono vittime del vero terrorismo, quello di stato.

Quindi, in fondo, che cosa c’è da stupirsi.

Tutto normale.

Tutto tremendamente normale.

Tutto orrendamente normale.

Tutto normale come un presidente.

martedì 6 maggio 2008

Accusati di lavavetrismo



Nell'Italia dove il presidente della camerata, pardon, della camera, on. fasc. Gianfranco Fini, afferma che il pestaggio omicida di Verona da parte di alcuni nazisti "di buona famiglia" è fatto meno grave della protesta contro Israele alla fiera del libro di Torino, accadono anche alcuni episodi "minori", ma assolutamente indicativi dell'aria che si respira. Uno di questi episodi mi vede tra i "protagonisti" (virgolette d'obbligo). Ve lo vado a raccontare, con la doverosa avvertenza ai miei 4 milioni di lettori che, d'ora in avanti, a loro rischio e pericolo leggeranno il blog di un pericolosissimo inquisito dalla magistratura.


La storia comincia il 28 agosto 2007, quando il volitivo & barbocchialuto assessore del Comune di Firenze, l'oramai arcinoto Graziano Cioni, emette l'altrettanto famoso "decreto anti-lavavetri" (di cui si parla in questo post), ovviamente nell'ottica della sicurezza dei cittadini, minacciati (anzi, minacciatissimi) dalla presenza agli incroci di quegli sporchi e noiosi zingaracci da eliminare con le buone o con le cattive. Il Cioni, assessore della giunta di "sinistra" fiorentina, peraltro si ripeterà qualche mese dopo con un analogo decreto contro i mendicanti sdraiati, prendendo a pretesto il fatto che un'anziana signora ipovedente aveva inciampato in uno di quei disgraziati stesi a terra, procurandosi lievi ferite che dalla stampa cittadina erano naturalmente state presentate come poco meno che mortali.

Il pomeriggio di quel 28 agosto, giornata assolutamente torrida, un commando di pericolosi anarco-insurrezionalisti fiorentini, tra i quali il sottoscritto, si erano presentati all'incrocio tra Piazza della Libertà (!!) e il viale Don Minzoni, decisi a protestare contro l'ordinanza cioniana e, più che altro, armati fino ai denti. Di secchi, spugne, cenci & volantini. La forma di protesta scelta era, appunto, quella di trasformarsi in lavavetri ad un incrocio tra i più trafficati della città, sfidando così il diktat securitario del feld-assessore e distribuendo agli automobilisti e ai passanti un testo di protesta.

A mia memoria, eravamo in meno di quindici, bardati in tute da combattimento consistenti in canottiere e magliette inzuppate di sudore, pantaloncini corti e sandalacci puzzolenti. Non chiedevamo assolutamente soldi; ma poiché qualche automobilista ci ha dato qualche spicciolo, lo abbiamo passato a un vero lavavetri russo che se ne stava, sconcertato, al suo incrocio, non sapendo probabilmente niente dell'ordinanza dell'Oberstkommandant von Cioni anche perché non parlava manco mezza parola d'italiano.

Tutti bene attenti a non danneggiare nemmeno il minimo tergicristallino di un'automobilina a pedali, ritirandoci in buon ordine quando vedevamo che la cosa non era gradita, lavando il vetro a chi voleva e asciugandoglielo pure. E distribuendo il volantino, per nulla tenero come è facile immaginare; pigliandoci gli improperi di qualche tizio o tizia, addirittura le minacce di due ragazzotti su una tamarromobìl ("La macchina voi 'un vu' ce la toccàhe!", quando manco gliela avevamo sfiorata…), e incassando qualche rara voce di solidarietà.

Il tutto è durato un'ora e mezza, forse due; si sbaracca e si fa per tornare chi a casa, chi al Panico Okkupato, chi alla Riottosa Fangosa…nessuno sapeva che la democratica scure dello Stato stava per abbattersi sulle nostre teste, autori com'eravamo di un atto criminale & sovversivo tra i più gravi contemplati attualmente a Firenze ma non solo: il reato di lavavetrismo insurrezionalista continuato.

Il sottoscritto, allora privo di automobile, chiede del tutto casualmente un passaggio ad un ragazzo dello squat Riottosa, tale V., che ha il mezzo posteggiato proprio in piazza della Libertà; non facciamo neppure in tempo ad aprire gli sportelli, che veniamo fermati e identificati dalla poderosa Digos, che addirittura tenta di perquisire l'interno della macchina alla ricerca –chissà- di secchi pieni di Semtex, stracci imbevuti di nitroglicerina, spugne-bomba o quant'altro. Dopo un po' ci lasciano ripartire, non senza qualche minaccetta velatina, ma intanto qualcuno, da lontano, assiste alla scena e crede che ci abbiano arrestati. Partono telefonate preoccupate con persino i numeri di avvocati pronti a disposizione, quando invece ce ne stiamo bel belli coi finestrini aperti e in marcia verso una doccia rinfrescante che avevo opportunamente offerto al sudatissimo compagno di sventura.

E la storia sembra finire qui. Sembra!

Perché oggi, 5 maggio 2008, a distanza di otto mesi dal nostro orrendo attentato all'ordine cionistituito, tutti i partecipanti alla lavata di vetri del 28 agosto 2007, e quindi me compreso, hanno ricevuto una regolare denuncia, con informativa della conclusione delle indagini sul nostro contro (all'anima, otto mesi per indagare su persone già identificate…) e addirittura la nomina dell'avvocato d'ufficio (i cui servigi abbiamo deciso di declinare, preferendo affidarci ad altro legale). Il tutto, udite udite, per violazione dell'articolo 18 del TULPS (Testo Unico Leggi Pubblica Sicurezza), che così recita:

I promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico devono darne avviso, almeno tre giorni prima, al Questore.
E’considerata pubblica anche una riunione, che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l'oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata.
I contravventori sono puniti con l'arresto fino a sei mesi e con l'ammenda da € 103,00 a 413,00.
Con le stesse pene sono puniti coloro che nelle riunioni predette prendono la parola.
Il Questore, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione.
I contravventori al divieto o alle prescrizioni dell'autorità sono puniti con l'arresto fino a un anno e con l'ammenda da € 206,00 a € 413,00.
Con le stesse pene sono puniti coloro che nelle predette riunioni prendono la parola.
Non è punibile chi, prima dell'ingiunzione dell'autorità o per obbedire ad essa, si ritira dalla riunione.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano alle riunioni elettorali.

Insomma, sì, lo avrete capito: siamo stati incriminati nientepopodimeno che di un'autentica radunata sediziosa! Tale denominazione si rende obbligatoria, in quanto bisogna far presente che il TULPS altro non è che il Regio Decreto n° 773 del 18 giugno 1931. Un decreto fascista passato solo con qualche lieve aggiornamento nell'ordinamento dello stato "democratico", e per il quale una riunione pacifica di (pochi) cittadini armati di secchi, spugne e cenci per protestare contro un'ordinanza comunale è passibile di denuncia penale con relative indagini e rinvio a giudizio.

Ci sarebbe a questo punto da trarre qualche conclusione, ma sinceramente non me ne sento capace. Dovrei essere preoccupato, e invece è tutto il giorno che non la smetto di ridere. Una barzelletta, un processo che –come ci ha detto l'avvocato prescelto- non si farà prima di due o tre anni, eccetera eccetera. Da ridere, certo; ma ci sarebbe da piangere. Questa è la libertà di esprimere e manifestare le proprie opinioni nell'Italia del 2008. Questo è il securitarismo. Questa è la repressione. Da piangere, certo, ma in preda alle risate che promanano dal ridicolo. Dal ridicolo di Stato.

Perché bisognerebbe avere il coraggio di dire semplicemente che lo Stato e il suo potere sono cose ridicole, senza senso, senza logica. Lo stesso Stato di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia è anche quello di Piazza della Libertà.