domenica 27 febbraio 2011

Basta con gli angeli


Mi hanno veramente caramellato i coglioni, gli angeli.

Siccome questo qui è un paese dove di bambine e bambini, di ragazzini e ragazzine se ne ammazzano parecchi, bisognerà dire un po' le cose come stanno. Brutalmente, e anche a costo di apparire insensibili. Una tredicenne trovata dopo mesi morta accoltellata in un campo, ridotta a un grumo di orrore, non è un angelo: è un cadavere. Non andrà in nessun "cielo", ma all'obitorio. Dovranno arrivare i genitori o i parenti a riconoscerla, e si può immaginare la cosa. C'è stato qualcuno che ha fatto tutto questo, per dei motivi che non si conoscono, ma che è lecito almeno immaginare. Che ha preso un oggetto con cui ha posto fine alla sua vita in modo atroce; e allora ecco subito il contraltare dell'angelo, l'orco. Tutto sembra essere ridotto a favolette: quella religiosa per chi subisce, e quella "laica" per chi offende. Arriva il sor parroco e fa pure suonare le campane a festa, perché (parole sue) "oggi c'è un angelo di più in paradiso e bisogna festeggiare". Me ne verrebbero tante, e forse troppe, da dire su questa frase; meglio ricorrere al no comment, al silenzio. Chissà se sono state suonate anche le campane di quella chiesa di Potenza dove fu ritrovata la mummia di un'altra ragazzina, su in soffitta.

Questo paese cattolico è diventato una fabbrica di angeli. Ci pensano spesso e volentieri le famiglie stesse, magari per opera del papà più o meno separato, depresso, solo eccetera; zàc, e di angioletti che volano non me mancano mai. Poi ci sono quelli, e soprattutto quelle, che sbattono ogni giorno contro il muro del vero sentimento dominante, l'indifferenza; ed è un'indifferenza tantò più indifferente quanto più viene teatralizzata, angelicata, gridata. Al punto focale della questione non si va mai: una società e una cultura che considerano la vita come possesso e come merce. Tutto può essere preso, comprato, usato, buttato via. E non c'entrano nulla neanche gli orchi, qui; gli orchi non esistono come non esistono gli angeli e altre panzane del genere. Un rifiuto significa morte, e immediata. Un conto in banca scoperto significa sangue. Una separazione significa sterminio. Poi ci pensano gli angeli, ma gli angeli devono essere per forza minorenni. Le centinaia di donne che ogni anno vengono ammazzate, invece, non hanno diritto ad essere angeli e possono passare direttamente all'obitorio e alla fossa senza alcuna divagazione celeste.

A chi si accinge a stuprare e ammazzare una ragazzina non interessano né angeli e né demoni, né orchi e né fiabe. Ha individuato la preda e procede. Non gli importa se lo troveranno o se la farà franca. Non è un orco: è un essere umano, perché è sbagliato attribuire al termine "umanità" significati sempre e comunque positivi. Umanità sono millenni di violenza, di sopraffazione, di morte. Ci sono state milioni di Yare, e nulla è cambiato; e non è cambiato perché tutto è sempre andato in un verso. Il verso dell'impotenza di fronte alla forza. Il verso dei ruoli immutabili, codificati, resi legge. Il verso che è sempre stato obbligato in nome di mille cose, servendosi ora di angeli e ora di bastoni, ora di madonne e ora di coltelli, ora di sacramenti e ora di ricatti.

A me non interessano le consolazioni; a forza di consolare con il cielo, ci hanno fregato, e da sempre, tutta la terra. A me interessa che non ci siano più ragazzine interrotte mentre tornano a casa, portate in un posto con una scusa o a forza e poi violentate e ammazzate come bestie. Certo, bisognerebbe, come di dice, cambiare mentalità; operare un percorso personale e collettivo, e applicare tale percorso a se stessi. Ma, per farlo, occorrono degli strumenti ben precisi; soprattutto occorre l'attitudine a pensare, a osservare, a trarre delle conclusioni. Questa epoca va in direzione esattamente opposta: verso l'istupidimento, verso il considerare il pensiero come un fastidio inutile, verso il branco tanto più feroce quanto più può essere controllato e plasmato. Disertare, sì; ma pochi sono disposti a farlo davvero, e senza nessun mezzo veramente valido per avere una reale incidenza sulla società. Ci si scontra con nemici troppo potenti; con il potere, con le "culture tradizionali", con le religioni, con le masse anestetizzate.

Ma, tanto, ci pensano gli angeli. A quante decine e decine di ragazzine, anche e soprattutto quelle la cui vicenda non salirà agli onori della cronaca, toccherà di montare le alucce? L' Angel Kit già pronto nella testa di qualche genitore, di qualche parente, di qualche amico, di qualche perfetto sconosciuto? E cosa portano, poi, tutti questi angeli? Paura, insicurezza, silenzio, chiusure totali a livello personale e di comunità, forche, applausi alle bare, omelie, campane, "giustizie" ben calmierate con le relative tariffe. Gli angeli li hanno inventati gli alfieri della sottomissione; ci vorrebbero, invece, i dèmoni della riflessione, del rifiuto di ogni ruolo prestabilito, della lotta.

Non solo gli angeli. Hanno inventato la terra lieve, la speranza e tutte queste altre baggianate. La terra è fredda, puzza, è pesante. La speranza è buona soltanto per i fessi. Bisogna essere contro la speranza, perché è strumento principe di sopraffazione. Non angeli, ma agitatori di sonni e di coscienze. Via dalle scatole questi esserini asessuati, perché le ragazzine sono ammazzate per infilare un cazzo in una fica. Fuori dalle palle tutti i palliativi che servono soltanto a perpetuare l'inganno eterno. Nelle case degli angioletti fatti volare in cielo ci si infilano i paparazzi dalla finestra.

venerdì 25 febbraio 2011

D Swytzer im Waald (reprise)


Questo blog ha, oramai, quasi quattro anni; e in quattro anni ce ne sono state scritte, di parole. Un'infinità. Ci sono oramai delle cose che sono letteralmente sepolte al suo interno; questa che vado stasera a riproporre, appartiene alla sua preistoria. La avevo originariamente scritta per un vecchio blog non più esistente, e poi infilata qui dentro il 16 maggio 2007, vale a dire dopo soli due giorni dall'apertura dell' "Ekbloggethi".

Chi scrive, anche se a livello puramente dilettantesco come il sottoscritto e senza proprio nessuna velleità che sia una, ma soltanto per il puro piacere di farlo, non ha a mio parere il diritto di formulare criteri estetici o graduatorie. Non mi piacciono affatto le "analisi" che autori sia pur grandissimi hanno fatto delle proprie opere; caso tipico, il "Corvo" di Edgar Allan Poe. Non amo parlarsi addosso. Chi scrive può, al massimo, esprimere il piacere più o meno grande di avere scritto una data cosa, e parlare dei ricordi che, a distanza di tempo, tale cosa può generargli. Questa cosa che leggerete, o rileggerete, è una di quelle che più mi fa piacere avere scritto. Stasera, così per caso e senza nessun motivo, me n'è presa un po' di nostalgia.

È una storia che nasce un po' da una canzone, un po' da uno sbaglio e un po' dal luogo dove vivevo quando l'ho scritta: la Svizzera. Stranissimo posto, dove andavo continuamente alla ricerca dei "grains de folie". La canzone è "Sally" di Fabrizio de André; abbastanza noto l'episodio in cui De André, durante un concerto, ne sbagliò il testo mettendo nel bosco degli svizzeri al posto degli zingari. Mi venne da costruirci sopra una breve storia; il suo titolo, nel dialetto alemannico che si parla da quelle parti, significa appunto "Gli svizzeri nel bosco". Stando allora lontano dalla Toscana, tendevo a scrivere usando parole e forme dialettali (ad esempio, "doventate" per "diventate"); non era un vezzo, ma una lieve forma di sopravvivenza. Vista l'ambientazione, la cosa può creare un effetto un po' comico, o fors'anche ridicolo; ma mi veniva così, allora.

Il Rheindurchbruch sulla Via Mala.

Kohlrabi, Re dei Topi, de müüser syn chünig, aveva qualche problema di respirazione. Tutta colpa di quei maledetti copertoni bruciati da non si sa chi; il fumo denso gli provocava degli irrefrenabili accessi di tosse che gli facevano sputare il cervello e i polmoni. Il fatto era che doveva vivere in quel bosco, braccato, da quando i gendarmi erano venuti a cercarlo sulla Via Mala, lontanissima da lì; attorno a lui quel poco della banda che gli era rimasta, un ammasso d'invecchiamenti, di rughe, di fucili antiquati, di vestiti laceri di tela grezza. Gli era rimasto quel soprannome di Re, che s'era guadagnato da quando comandava gli assalti alle automobili che s'avventuravano per quei postacci di pietre dalle strane forme, di ponti del diavolo, di gallerie scavate nella roccia, di acuminatezze spaventose.

Se n'era parlato tanto, negli anni del dopoguerra, della banda del Re dei Topi, quando Kohlrabi era ancora un giovane alto più d'un metro e novanta e con du' bracci che sembravano quercioli; si dice che avesse imparato il mestiere da suo padre, ch'era arrivato a rapinare da solo tutti i passeggeri della diligenza del San Gottardo tendendo un agguato sulla Tremola con un finto fucile, fatto di legno, ma così bene da sembrar pronto a sparare da un momento all'altro. Poi s'era aggregata la banda, che nei momenti d'oro, attorno alla metà degli anni '50 e all'inizio degli anni '60, poteva contare su quasi venti compari pronti a tutto. E non c'era stato mai verso di pigliarli, quei maledetti; sempre più temerari, sempre più strafottenti, sempre più negli incubi dei bravi cittadini che desideravano legge e ordine. E la Via Mala era tornata a tener fede al suo nome.

Della banda faceva parte Wilhelm Tell, che non era un soprannome. Si chiamava veramente Wilhelm di nome, e Tell di cognome. Poi c'era Hartmann Goldfischli. Uomo duro e Pesciolino d'oro, questo volevan dire il suo nome e il suo cognome; ma per tutti era soltanto il Pesciolino d'Oro, d goldfischli come si leggeva persino sugli avvisi di ricerca nelle stazioni della polizia e della gendarmeria. La specialità di questi due era semplicissima, poiché gran finezza non c'era da attendersi da quelle parti; se un passeggero si ribellava, o tentava di fare il furbo, lo stendevano a cazzotti. Poi lo ripulivano. Di tutto, fuorché della macchina o della moto; perché prendergli il mezzo di trasporto significava condannarlo a morte, e non avevano mai ammazzato nessuno. E come faceva rabbia a lorsignori, che non ci fosse mai scappato il morto; anche perché, come logica vuole, coloro che erano rapinati ci dovevano per forza avere qualcosa da farsi rapinare.

Alla banda di Kohlrabi era toccato imparare un po' d'inglese e di francese, e persino qualcosa in tedesco normale, perché le vittime preferite eran doventate i ricchi turisti stranieri che s'inerpicavano per quella strada attirati dai dépliants delle agenzie che magnificavano "la selvaggia e inquietante bellezza dei luoghi". C'era poi Pilar, che non faceva affatto, come spesso accade in queste storie, la donna di qualcuno o di più d'uno. Era una bandita come gli altri. Portava le armi come gli altri. Tirava cazzotti come gli altri. Si divideva il bottino come gli altri. Alle cronache giudiziarie è passata come Pilar dei Meli, perché la sua famiglia coltivava mele e pere, producendo fra le altre cose un ottimo "birnel"; ma si chiamava Pilar Bergschänzli e doveva quel suo nome esotico al padre, divoratore di romanzi di avventure. Lo aveva ripreso dalla "bella Pilar" di una storia di Karl May, che era stato anche, non per colpa sua, lo scrittore preferito da Adolf Hitler. Karl May vestito da capo pellerossa in una celebre immagine. E questi eran quelli che erano restati con Kohlrabi in quel bosco lontano, di rara pianura, ai bordi d'una strada battuta da automobili sempre più veloci, sempre più potenti, sempre più rumorose. Nessuno osava più fermarle, ora che gli anni eran passati e non era rimasto altro posto per nascondersi. Chi mai avrebbe pensato che quella gente di montagna sarebbe andata a rifugiarsi in una piana?

E nella piana erano spuntate le case, e le strade, e linee elettriche e telefoniche e capannoni industriali; soltanto quel pezzo di bosco era rimasto, sebbene fosse certo che, prima o poi, lo avrebbero abbattuto per farci qualcosa. C'erano arrivati scappando, quando la banda, nell'aprile del 1968, era stata sgominata dalla polizia per un tradimento. Era stato uno degli ultimi arrivati, un intellettuale zurighese di città che, convinto della portata rivoluzionaria delle azioni della banda del Re dei Topi, aveva voluto unirsi per condividere quella che vedeva come una lotta contro il sistema borghese. A qualche commentatore non era sfuggito il quasi perfetto parallelismo con Régis Debray, l'intellettuale francese che s'era immischiato nell'avventura boliviana del Che Guevara, e che con le sue stronzate aveva contribuito non poco alla sua cattura, seppure un ben preciso tradimento non sia mai stato appurato. E così l'intellettuale zurighese, Karl Wolfschwanz, s'era accorto che la banda di Kohlrabi non lottava proprio per un bel nulla, ma rapinava. Che la vita era durissima, in clandestinità. Che Pilar non gliel'avrebbe data nemmeno se l'avesse implorata in usbecco. Che di notte faceva un freddo boia anche d'estate, a quelle quote. Che il sano mangiare di montagna gli aveva rotto i coglioni dopo un mese. E che a Kohlrabi e ai suoi, di certi discorsi gliene importava il giusto, ovverossia nulla.

C'era già chi cominciava a pensare a come sbarazzarsi di Wolfschwanz senza fargli del male, quando quest'ultimo fece male a loro e andò a spifferare tutto alla polizia di Coira con la promessa dell'impunità e con il conforto di un caffè caldo e di un piatto di salsicce con patate. S'era accorto di quanto siano carogne quei proletari nel nome dei quali si combatte. Aveva raccontato tutto quel che sapeva: nascondigli, abitudini, descrizioni; e la polizia, una mattina ancora freddissima, aveva prima chiuso la Via Mala dai due lati, e poi era arrivata in forze. Di ventisette membri della banda, ne erano stati catturati ventitré; tra di loro anche un italiano di Genova, uno di cui si diceva scrivesse canzoni e poesie, ma che era lestissimo di mano e che aveva saputo, pur nato marinaio, adattarsi a quella vita con sorprendente rapidità. Si chiamava Fabrizio; fu condannato a quindici anni di galera, ma evase dopo meno di un anno imbarcandosi poi con falso nome su un cargo inglese, la London Valour. Di lui si son perse le tracce dopo il famoso naufragio di quella nave, proprio sul porto di Genova, a due passi da casa sua.

Quattro scapparono. Kohlrabi, il Re dei Topi. Pilar dei Meli. Il Pesciolino d'Oro e Gugliemo Tell. Non si sa come, qualche tempo dopo gli operai che, per una manutenzione, stavano svuotando un laghetto artificiale alle pendici del Bernina, il Rotensee (così detto perché le sue acque si coloravano a volte di rosso per l'azione di un batterio), videro spuntare dalla melma un braccio. E poi una gamba. E poi un altro braccio. E poi un cadavere che fu identificato a fatica con quello di tale Karl Wolfschwanz, di Zurigo, di professione giornalista per un quotidiano di destra dal quale aveva preso a tuonare contro i nemici dello stato borghese scrivendo degli epici articoli contro gli studenti francesi ed in favore del generale De Gaulle. Da allora il Rotensee, il lago rosso, divenne il Totensee, il lago del morto.

Avevano continuato a scappare per mesi e mesi per tutto il paese, nascondendosi nei posti più impensati. Il Re dei Topi, de müüser syn chünig, aveva mangiato topi assieme ai suoi; e Pilar scherzava chiamandolo cannibale, e Guglielmo Tell sognava russando, e il Pesciolino d'Oro voleva per la prima volta nella sua vita andare verso il mare, invidiando Fabrizio quando s'era diffusa la notizia della sua evasione dal carcere (al suo posto, in cella, i secondini avevano ritrovato un pupazzo impiccato a un chiodo, fatto con la paglia del materasso e con le lenzuola). Alla fine avevano trovato quel bosco quasi dimenticato. C'erano funghi. A dormire all'addiaccio erano abituati. Un giorno era persino arrivata una capra, perdutasi da qualche ovile o da chissà dove. E le armi si arrugginivano, e il tempo arrugginiva, e non ebbero infine nemmen più la paura d'arrugginir'essi stessi, ché forse li avevan dimenticati e li credevano all'estero o morti. Un giorno, diceva il Re dei Topi agli altri, torneremo sulla Via Mala. Un giorno torneremo lassù. Non ci tornarono mai.

E forse questa storia dovrebbe finire qui, dovremmo lasciare il Re dei Topi e i suoi tre compagni in pace, a finir la loro vita come alberi nel bosco. Perché con gli alberi avevan preso a discorrere, e che conversazioni facevano; e gli alberi ascoltavano ed annuivano cortesemente con le fronde primaverili e con gli scheletriti rami invernali. Sì, dovremmo finirla proprio qui, se non fosse per quella bambina. Abitava, con la famiglia, in una villetta prefabbricata sulla nuova viabilità ad est del bosco. Cittadini incampagnati, i suoi s'eran ritrovati di nuovo quasi in città quando la zona s'era pian piano inurbata. La madre lavorava in un biscottificio della zona, mentre il padre scriveva recensioni televisive per la rivista Teleschauer. E a forza di sorbirsi ogni sorta di programma, s'era appassionato all'opere del sapone e alle telenovelle americane, argentine, brasilere, messicane; la figlia, una bimbetta biondissima di sette anni, aveva deciso di chiamarla Sally dalla protagonista di Febbre di passione, una telenovella colombiana che, una volta terminata dopo undici anni, stava proseguendo da altri otto con il titolo di Vento d'amore.

Essendo l'unica figlia della coppia, Sally era terribilmente viziata, coccolata, rimpinzata, antipaticissima. Un'autentica fair-haired rompicoglioni. Ma aveva anche lo spirito d'avventura e di contraddizione di tutti i bambini, e più i genitori le dicevano di non andare a giocare nel bosco, più lei ci andava. Nel bosco, s'alternavano ad ammonirla il babbo e la mamma, c'erano gli zingari. E oltre agli zingari c'erano i terroristi islamici che le avrebbero fatto mettere il burka e poi l'avrebbero imbottita di esplosivo e fatta saltare ad un posto di frontiera della striscia di Gaza. E oltre ai terroristi islamici c'erano i ladri, gli assassini e gli stupratori. L'avessero sbarbato finalmente, quel maledetto bosco; del resto era questione di poco, la Zschokke e il Batigroup ci avevan già messo gli occhi addosso per un bel megacentro commerciale di cui si sentiva tanto il bisogno in quella zona dove ne esistevano già altri ventidue. Non devi giocare con gli zingari nel bosco, dicevano; e lei ci andava sempre a giocare. Anche se non erano zingari, ma quattro strani tipi, tre uomini e una donna, che raccontavano storie ancora più strane in un dialetto che Sally non capiva sempre.

Una volta tornò a casa e, ai rimproveri del padre, rispose che aveva incontrato Guglielmo Tell. Il padre corse alla polizia a chiedere informazioni su di lui. E così Sally si divertiva con quella gente, che aveva preso quasi a volerle bene e che le faceva fare quel che voleva, compreso arrampicarsi sugli alberi e sporcarsi come una porcilaia. Le avevano preparato il piatto del bosco, funghi con contorno d'altri funghi e insaporiti con i funghi. Ogni tanto Sally, tornando dal bosco, si fermava a salutare una puttana di mezz'età che viveva in una roulotte con targa 44 di Nantes e che si faceva chiamare La blanche biche. Quella poi, se ne raccontava di storie strane, pure d'essere stata una volta squartata dai cani del fratello e mangiata in sala da pranzo dai commensali. I genitori non sapevano più che pesci pigliare e avevano cominciato a subodorare qualcosa. In quel bosco doveva esserci per forza qualcuno. Non saranno stati né gli zingari, né i terroristi islamici, ma dei ladri o dei banditi di sicuro; chi altro può vivere in un bosco?

Avevano preso a fare a Sally delle domande a trabocchetto, nelle quali la bambina non cascava mai perché i suoi amici le avevano insegnato quel che doveva rispondere e lei s'ingegnava anche d'aggiungere panzana a panzana; ma con una tale naturalezza che sembrava tutto assolutamente vero. Nel bosco, diceva Sally, ci vado a giocare a tamburello con gli alberi perché la palla rimbalza da un tronco all'altro e inseguirla senza farla cadere a terra è uno sballo. E nel bosco, diceva ancora Sally, ci vado perché ho incontrato un pesciolino d'oro e il re dei topi che mi raccontano le loro storie; ed era tutto vero, solo che i genitori non ne avevan mai sentito parlare. Quale soddisfazione dir bugie raccontando la verità. Non ne esiste di migliore.

Nelle storie passan presto gli anni, e la nostra non fa nessuna eccezione. Ne passarono altri cinque o sei, forse dieci o dodici. Forse il passato ha superato l'oggi e s'è spinto nel domani. E chi lo sa. E chi lo vuole sapere. Sally aveva già quasi finito il liceo e era diventata una di quelle ragazze bellissime di tutti i giorni, quelle che s'incontrano per la strada in maglietta o intabarrate nei giubboni. Una di quelle che rendono bello il mondo senza saperlo. Era sempre curiosa. Sempre antipatica, ma solo con chi le andava però. S'era messa con due o tre ragazzi che aveva scoperto uno più idiota dell'altro. E siccome i genitori le avevano raccomandato di studiare per una professione solida e sicura, e d'iscriversi a economia o scienze bancarie, lei s'era fissata di voler laurearsi in letteratura greca e leggeva di nascosto Esiodo, Euripide, Sofocle e Luciano di Samosata, come se fossero dei pericolosi autori di libri proibiti. Non lo sapeva nessuno tranne i suoi quattro amici del bosco; ogni tanto arrivava coi libri e si metteva a leggere; a Pilar piaceva particolarmente la Storia vera di Luciano, perché le ricordava la sua vita e quella dei suoi compagni.Fu un brutto giorno di prim'ottobre che Sally, arrivando nel bosco coi libri e col tamburello, trovò il Re dei Topi, de müüser syn chünig, il Pesciolino d'Oro e Gugliemo Tell in lacrime.

Dov'è Pilar?, chiese. Le risposero che era morta. Che l'avevano ritrovata accoltellata vicino a un ponte, e che non si sapeva chi fosse stato. A Sally caddero i libri e il tamburello di mano. Domandò dove fosse. Le dissero che la polizia l'aveva portata via, forse per fare l'autopsia alla morgue. Le dissero piangendo che non l'avrebbero mai più rivista. Le dissero che l'avrebbero tagliata a pezzi. Sally tornò a casa di corsa; il padre guardava professionalmente la telenovella Anche i porci amano; la madre, nel corridoio, stava baciando l'idraulico polacco del quale era amante da sei anni senza che il padre se ne fosse mai minimamente accorto. Andò in camera sua e prese uno zaino, mettendoci dentro le cose che aveva più care. Poi se ne andò e non disse neppure a sua madre che non sarebbe tornata. Del resto era già in camera a fare l'amore con l'idraulico. Suo padre era passato all'analisi di costume dell'ultimo reality show, L'isola dei condannati, basato su un vecchio romanzo di Stig Dagerman, dove dei vip venivano rinchiusi all'Isola del Diavolo e costretti a vivere nelle stesse condizioni di Dreyfus e di Guillaume Seznec. Vinceva chi riusciva a evadere, ma già due calciatori, una top model e un cantante erano stati divorati dagli squali facendo schizzare l'audience a livelli mai visti prima.

Tornò nel bosco. E disse loro che era ora di raccogliere le forze e di riprendere il passo duro, quello di montagna. Lo dovevano a Pilar. Dovevano tornare sulla Via Mala. Dovevano insegnarle come si rapinano le automobili. E comprare delle armi nuove, ché quelle che avevano non servivano ormai più a niente. Si sentirono degli scricchiolii d'ossa e dei mugugni. Si sentirono degli E se ci riconoscono, e se ci prendono; ma Sally, nello zaino, aveva infilato pure la Smith & Wesson del padre nascondendola nella custodia delle commedie di Aristofane.




Модерная масскоммуникация


martedì 22 febbraio 2011

Piccola cronologia portatile


23 ottobre 1911

Durante la guerra italo-turca per il possesso della Libia un pilota della neonata aviazione militare italiana, il capitano Carlo Maria Piazza, sorvola per la prima volta delle linee nemiche a bordo di un aereo. Pochi giorni dopo, un altro aviatore italiano, Giulio Gavotti, sgancia per la prima volta nella storia una bomba dal cielo. Il primo bombardamento aereo della storia consiste in un ordigno grande poco più di un'arancia, lanciato a mano da Gavotti sulle truppe turche. Il 18 ottobre 1912 la Libia, o Tripolitania, è conquistata dall'Italia.

16 settembre 1931

In seguito alla guerriglia anticoloniale libica, guidata da Omar al-Mukhtar el-Senussi, Mussolini affida al generale Rodolfo Graziani il compito di stroncarla nel sangue. Vengono usati tutti i metodi, compresi la distruzione totale di alcuni villaggi e il primo bombardamento aereo a tappeto, per annientare l'oasi di Cufra. Omar al-Mukhtar è catturato l'11 settembre 1931; il 15 settembre si svolge nel Palazzo Littorio di Bengasi un processo-farsa, con la sentenza già dettata da Mussolini in persona: morte. Viene arrestato persino il difensore d'ufficio di al-Mukhtar, l'avvocato Roberto Lontano; aveva interpretato colpevolmente alla lettera il suo ruolo. Alle 9 del mattino del 16 settembre 1931, Omar al-Mukhtar è portato a Solluch, in Cirenaica, ed impiccato davanti a ventimila persone. Aveva settant'anni. Le sue ultime parole furono un versetto del Corano: "A Dio apparteniamo ed a lui ritorniamo". La foto del suo arresto viene sfoggiata dal colonnello Gheddafi durante la sua prima visita ufficiale in Italia.


19 gennaio 1943

La Libia viene occupata dagli eserciti alleati, che pongono fine all'amministrazone coloniale italiana; la maggior parte degli italiani rimane però in Libia, detta familiarmente Scatolone di sabbia.

24 dicembre 1951

La Libia dichiara la propria indipendenza come Regno Unito di Libia. Primo re è Idris I el-Senussi, appartenente alla medesima casata di Omar al-Mukhtar. La Libia entra nell'ONU il 14 dicembre 1955; nell'aprile del medesimo anno era iniziata l'esplorazione petrolifera. Nel febbraio del 1963 iniziano le esportazioni del petrolio che giaceva in abbondanza sotto la sabbia dello scatolone. Il 25 aprile 1963, mentre l'Italia festeggia il 18° anniversario della Liberazione, il regno di Libia abolisce la forma federale dello stato.

1° luglio 1962

Dalla "Prefazione" alla prima edizione del "Corso d'Arabo" del dott. Mario Gerardo Dall'Arche O.F.M. (Ordo Fratrum Minorum) - Edizioni Biblioteca Francescana, Piazza Sant'Angelo 2, Milano

"Ho scritto questa grammatica specialmente per gli studenti delle Scuole Secondarie Italiane, con lo scopo di appianare al massimo le difficoltà che essi incontrano nello studio della lingua araba. [...] Fiducioso che questo mio lavoro faciliti lo studio dell'arabo ai nostri giovani, auguro ad essi una sempre maggiore conoscenza delle lingue, fonte di comprensione, di simpatia e di fraternità tra i popoli" - Mario Gerardo Dall'Arche, Tripoli, Libya (sic), 1° luglio 1962.

1° maggio 1969

Dalla prefazione alla terza edizione del "Corso d'Arabo" del dott. Mario Gerardo Dall'Arche O.F.M.

"Nella speranza che questa ristampa contribuisca ad una maggiore comprensione della lingua araba tra i nostri giovani, auguro loro un più vivo interessamento per i popoli dell'Africa Settentrionale e del Vicino Oriente, che stanno rivivendo un periodo di promettente giovinezza" - Mario Gerardo Dall'Arche, Tripoli, Libya (sempre sic), 1° maggio 1969.

1° settembre 1969

Re Idris I viene deposto con un colpo di stato operato da alcuni ufficiali nasseriani; capo provvisorio dello Stato è nominato uno sconosciuto e giovane colonnello, Mu'ammar al-Qadhafi, in Italia ribattezzato Gheddafi. Regime di impostazione arabo-socialista; nazionalizzazione delle risorse.

Primavera 1970 - 15 ottobre 1970

Vengono confiscati tutti i beni degli italiani residenti in Libia. Entro il 15 ottobre, tutti gli italiani vengono espulsi dal paese.

22 febbraio 1980


Non c'entra nulla? E io ce lo faccio entrare.


15 aprile 1986

Il colonnello Gheddafi è, per tutto il mondo, un terrorista; anzi, il principale terrorista del mondo. La Libia è uno stato-canaglia. Il presidente USA, Ronald Reagan, decide di bombardare la Libia, sostenendo che quello sarebbe "l'unico linguaggio che Gheddafi intende". Libia, terra eletta per i bombardamenti. Viene colpito anche il palazzo presidenziale di Tripoli, muore un giovane figlio adottivo di Gheddafi. Due missili libici cercano inutilmente di sbarcare a Lampedusa, il Manifesto titola: "Ci hanno messi in guerra". Gheddafi è un leader arabo socialista: insorge la sinistra italiana, recrudescenza di pacifismo. Giorgio Forattini, allora vignettista di Repubblica, disegna i principali esponenti del PCI e di altre formazioni di sinistra mentre marciano sotto uno striscione con la dicitura: Giù le mani dar valoroso popolo lìbbico. Se nel 1986 fossero esistiti Internet, i blog, Facebook e quant'altro, sarebbero stati invasi dall'effigie del colonnello Gheddafi, coraggioso resistente contro il Gendarme Planetario.

Febbraio 2011.

Berlusconi.
Silvio Berlusconi.
Berlusconi Silvio.
Silvio B.
Berlusconi S.

Nel blogroll ho tanti bei blog d'anarchia, di sinistra, d'ogni cosa. Oggi è il giorno di Gheddafi e Berlusconi. Berlusconi e Gheddafi insieme. Berlusconi che bacia la mano a Gheddafi. Contorno: Berlusconi e Ben Ali. Berlusconi e Mubarak. Gheddafi, leader laico, pugno duro contro ogni sorta di islamismo, integralista o meno; come Saddam Hussein. Pure lui arabo e socialista, se ben ricordo. Nella "sinistra" italiana Gheddafi è diventato il diavolo da quando è stata dichiarata l'amicizia con Berlusconi. All'improvviso si sono accorti tutti che Gheddafi è un dittatore. Libia, terra di bombardamenti aerei; Gheddafi fa sparare addosso alla folla dai mercenari negri (storico e notissimo il razzismo secolare dei popoli arabi verso i subsahariani, anche islamizzati); Gheddafi fa bombardare i manifestanti dall'aviazione. Nonostante tutto questo, Gheddafi è un pezzo di merda principalmente perché è amico di Berlusconi. Tutto, qui, ruota intorno a Berlusconi. Cosa faremmo senza Berlusconi; menomale che Silvio c'è.

Preoccupazioni basilari: i profughi, gli sbarchi, il gas, il petrolio. E quando Gheddafi entrava nella Fiat? E quando mandava il figlio a giocare nel Perugia di Gaucci? E quando era l'eroe resistente contro il reaganismo armato? Gheddafi serve, anche lui, a sbarazzarsi di Berlusconi. Anzi, più bombarda le manifestazioni, e più lo sbarazza. Berlusconi, del resto, è amico anche di Putin; quello che ha raso al suolo la Cecenia. Ma la Cecenia è lontana e non gasdotteggia direttamente; la Libia, invece, è vicina. Troppo vicina. Gheddafi e i suoi bombardamenti, però, ci daranno una mano a liberarci di Berlusconi; mica si vorrà scendere in piazza e dare l'assalto a Montecitorio, no?

22 febbraio 2010
Dichiara il ministro guardasigilli italiano, Alfano: "E' inammissibile assaltare dei manifestanti e massacrarli. In Italia questo non potrebbe mai accadere, perché l'Italia è una democrazia."





Tripoli di Liguria, luglio 2001

26 novembre 2014, presso il circolo "Antonio Gramsci" del Partito Demorenziano, periferia di Firenze.

" 'Nsomma, Piero, te lo dicevo io tre anni fa...'e gli è andaha a finì che so' arrivahi dugentomila crandestini, porcoddio! Sì lo so che 'un si pole bestemmiare, però ti rendi 'honto? E noi tutti lì a dagni addosso a qui' poeromo...poi l'hanno pure 'mpiccaho! 'E gli era amiho d'i' Berlusca, e daccordo poi tutti a 'ndignàssegnene, 'e ci serviva per leàccelo di hulo, lui, le donne, i' ppopoloviola che pe' me l'uniho popolo viola 'e gli è quello della Fiorentina...! Però poi la benzina a sei euri a i' litro, i' gàsse tagliato, e ora in Libia 'e c'ènno gli slàmici che pe' me 'e ciaveva ragione la Fallaci, artroché! Lo sai icché ti diho, Piero? Pe' me 'e faceva bene a bombardàlli, que' sudici! E l'era meglio Mubaràcche! Pòero Gheddafi, lui sì che l'era un compagno! "


domenica 20 febbraio 2011

نور الدين‎


Pare che un gesto analogo, e per motivi del tutto simili, abbia segnato l'inizio della rivolta tunisina; un ragazzo col suo carretto di roba da vendere, frutta, verdura o chissà cosa. Gli zelanti tutori dell'ordine, i regolamenti, le vessazioni, le multe. Il ragazzo non ce l'ha fatta più; ha preso una bottiglia di benzina e si è dato fuoco. Ed è morto così, atrocemente. La rivolta è scoppiata.

Un mare nel mezzo. Un ragazzo marocchino, Luce della Fede, Nur ad-Din, o Noureddine come si traslittera alla francese. Palermo, بَلَرْم ,città italiana. Una strada qualsiasi, una vita qualsiasi. Lo stesso carretto, la stessa roba, gli stessi tutori dell'ordine, gli stessi regolamenti, le stesse vessazioni, le stesse multe. Solo che ci sono una cosa in più, e una cosa in meno. La cosa in più è che Nur ad-Din non è a casa sua; casa sua è lontana, vicino a Dar el-Beida, o Casablanca. Città che, per un famoso film e per la leggenda delle operazioni di cambio di sesso è entrata in una specie di immaginario collettivo, chiamiamolo così. Per stare in una diversa realtà collettiva e sociale, invece, Nur ad-Din ha dovuto attraversare il Mediterraneo. Ha dovuto, probabilmente, restare clandestino per un certo tempo; poi ha ottenuto una cosa che si chiama permesso di soggiorno. Perché la Terra non è di tutti, come si sa; hanno fatto migliaia di film con sbarchi di Alieni, da quelli cattivi della Guerra dei mondi a quello buono di E.T., ma sono certo che la prima cosa che i faremmo in caso di sbarco reale di Extraterrestri sarebbe ficcarli in un CIE, eventualmente espellerli ("ributtiamoli nello spazio!") e poi far fare loro la trafila per avere il permesso di soggiorno. Altro che armi micidiali; ne abbiamo inventata una, su questo pianeta, che le batte tutte. Si chiama burocrazia.

La cosa in meno, è che qui di là dal Mediterraneo non scoppierà nessuna rivolta. Anche se le cose sono andate uguali. Nur ad-Din ha preso una bottiglia di benzina, si è dato fuoco e è morto. A ventitré anni. Forse sapeva di quel che aveva fatto il ragazzo in Tunisia, o forse no; ma non ha molta importanza. Sono arrivati gli sbirri del sindaco, i vigili urbani, coi regolamenti municipali e coi blocchetti delle multe. Il suolo pubblico, quello che ogni giorno viene occupato da intrallazzi e speculazioni, sconciato, distrutto e sfruttato senza pagare un soldo, lo devono pagare invece i ragazzi coi carretti per vendere due arance o un mazzo di sedano. I Comuni hanno bisogno di soldi perché sono diventati aziende; il Governo chiude i rubinetti, e allora i soldi bisogna andarli a prendere da qualche parte, anche ai Nur ad-Din. Niente soldi, niente servizi; a parte il fatto che numerosi servizi comunali fanno ben più schifo di prima, di quando non c'erano le aziende e si ragionava un minimo in termine di bene pubblico.

Sindaci-sceriffi, capi della città, sgherri. Il vigile urbano, prima, era non dico una figura amata, ma perlomeno aveva qualcosa di familiare; il ghisa, er pizzardone, ogni città aveva un nomignolo. Ora no. Ora sono Agenti di Polizia Municipale (o Locale). Ora rambeggiano pure loro. Ora devono applicare le Ordinanze degli Sceriffi. Ordinanze che, naturalmente, colpiscono i Nur ad-Din di ogni nazionalità, anche italiana; anche se, va detto, essere di certe nazionalità non è, come dire, un vantaggio. Ma i carretti sono gli stessi. Le verdure, anche. I pochi soldi che se ne ricavano, pure. Perché va così: la tua vita, la nostra vita, è oramai in mano a tutto questo. Non parlo filosoficamente, ma della vita normale, quotidiana, come cittadini. Amministrati a colpi di demagogia e di leader. Il sindaco "più amato" e quello "meno amato". Visibilità e pubblicità. Il sindaco non è più espressione della cittadinanza e di un consesso, ma si arroga il diritto di essere la cittadinanza, e di stabilire lui stesso il consesso. Ma di tutto questo, ne sono certo, a Nur ad-Din non importava granché. Per la sua vita, per i suoi poveri sogni e per i suoi cari aveva da vendere arance e sedani in via Ernesto Basile, a Palermo. Glielo hanno impedito, così, senza sapere nemmeno chi fosse. Lei qui non ci può stare. Controlli. Contravvenzioni. La moglie e la bambina in Marocco, e voleva farli arrivare in questo meraviglioso paese del Bengodi. Dove, sembra, si era trovato bene. Anche con la gente, che aveva preso a chiamarlo Franco. È un bel nome, Franco, e significa qualcosa; anche se può essere una riduzione di Francesco, come nome autonomo ha in sé la radice della Libertà. In bretone, "Libertà" si dice frankiz. Anche quando si dice "porto franco" significa che non bisogna pagare qualcosa. Franco, o Nur ad-Din, invece, ha dovuto pagare tutto quanto; e la Luce della Fede si è trasformata in altra, e sinistra, luce.

No, nessuna rivolta. Qui, quando scoppia una rivolta perché ti tengono a cavare pomodori in condizioni di schiavitù, il paesello piglia i fucili e ti massacra; non importa nemmeno che arrivino gli sbirri, municipali o nazionali che siano. Tornavo in treno da Piacenza, una delle sere della rivolta di Rosarno; davanti a me, nello scompartimento, caso volle che ci fosse proprio una famiglia di rosarnesi. Il figlio grande telefonava a casa per due motivi: il primo, informarsi del risultato del Milan; il secondo, sentire se a casa sua stavano anche loro a sparare a quei negracci di merda. "Mi raccomando, fatene fuori qualcuno!"; e rideva, e chiedeva se aveva segnato Pato o Inzaghi.

Vorrei essere non fraintendibile. Una rivolta, in questo come in decine di altri casi, non dovrebbe avere niente a che fare né con la vendetta e né con la giustizia. Dovrebbe solo avere a che fare con la logica. Trovo pienamente logico che a Tunisi, al Cairo e a Tripoli la gente si sia rivoltata, anche se ci sono molti punti che non mi sono pienamente chiari e sento parlare un po' troppo di ciclamini, di gelsomini e d'altri fiorellini che mi ricordano i "colori" d'altre parti; così come ci sono un po' troppi obami e mogli di spompinati dalle stagiste che intervengono. Ma le situazioni imponevano una rivolta, e una rivolta c'è stata. In questo paese pure s'imporrebbe; stop. Anche senza andare a scomodare il defunto Monicelli (che, peraltro, non credo abbia mai venduto sedani su un carretto, e che s'è dato la morte a 95 anni e non a 23).

Siamo proprio bravi, qui. Si dedicano le strade a Jan Palach, ragazzo praghese che si diede fuoco per far sì che, proprio nelle stessa piazza, sorgesse un giorno il sol dell'avvenire dei McDonald's; lo si ricorda come eroe contro il barbaro comunismo, e intanto si danno fuoco gli ambulanti marocchini perché sono vessati da due o tre vigili urbani di merda, regolamenti alla mano. Potessi avere la macchina del tempo del dottor Zapotec, la prima cosa che farei sarebbe tornare nella Vaclavské Namestí il 16 gennaio 1969, pigliarlo da una parte e suggerirgli in qualche lingua del cavolo di fare un diverso uso di quella tanica di benzina; qualsiasi uso, ma non su se stesso. E così farei per il ragazzo tunisino, e per Nur ad-Din: magari in un più comodo francese, suggerire loro di dare fuoco non a se stessi, ma al comando dei Vigili Urbani. Qualcuno ci dovrà pur pensare, una volta o l'altra. Qualcuno dovrà fare un bel falò di ordinanze, regolamenti, permessi, blocchetti delle multe e quant'altro. Qualcuno dovrà dare fuoco a queste città militarizzate, telecamerate, sicurezzate, sceriffate, pattugliate, ammazzate. Per questo s'ha una gran paura di quel che accade di là dal mare.

Paura e basta. Non ce ne importa mica una sega, a noi, se si abbattono dittature, se si chiede democrazia e libertà, se si vuole semplicemente vivere un po' più degnamente o se si vuole ancora più semplicemente vendere ortaggi e carabattole senza che nessuno si azzardi a rompere i coglioni; a noi importa che, con tutto questo, non arrivino migliaia e migliaia di Nur ad-Din. Tutti col loro carretto, con le loro famiglie, con le loro vite. Ci importa di questo e basta. Così come inneggiavamo alla grande rivoluzione rumena che aveva abbattuto il Vampiro della Transilvania, finché i rumeni non hanno cominciato a arrivare in massa. O al ritorno della democrazia in Albania, per cui finalmente si poteva tornare a pregare Gesù, la Madonna e Allah, finché un bel giorno non sono state avvistate carrette stracolme al largo di Otranto. E così i Nur ad-Din arrivano, dopo qualche anno si sistemano in una via Basile, e vendono verdura. Magari raccolta da altri disperati a Rosarno, chissà, o in qualche piana siciliana. E arrivano i Vigili, e per mezzo metro quadrato o per mezz'ora di orario ti appioppano una multa agghiacciante. E poi c'è il fuoco. E chi di fuoco ferisce.

Luci a San Remo



Hanno ragione, televisione,
mi han detto: “Senta, ma perché lei non ci va?
parli di donne, che va di moda,
di questo han voglia ma lei l'ha capito già.”
E che gli dico: “Guardi non posso, c'è pure Al Bano,
io mi rovino e poi son solo cazzi miei,
però c'è pure Gianni Morandi,
e non disprezzo un po' di pubblicità.”

Luci a San Remo di quella sera,
che c'è di strano, siamo stati tutti là,
ma vaffanculo a quella nebbia,
canto sul palco, e se mi votano chissà.
C'è anche Benigni col suo Mameli,
evviva evviva il nazionale-popolar,
tra le vallette con pochi veli,
io a Milano non ci voglio più tornar.

Ma il tempo emigra, e il tempo è bieco
non son capace più di dire un solo no,
io che conosco latino e greco
e che m'impegno, e che altro devo fà'?
Fo la mia vita, c'è il carovita
tanto dovevo prima o poi finire lì
sulla Riviera coi suoi bei fiori
cazzo se è bello, e non c'ero stato mai.

Scrivi Vecchioni, scrivi canzoni
che più ne scrivi più sei bravo e fai danè,
tanto che importa a chi le ascolta
se giù in platea ci son La Russa e Santanchè?
Fatti votare, fatti valere,
Avril Lavigne, e le Benigne ed i Modà,
poi alzi il premio, e cosa importa
alzalo bene, così tutti lo vedràn.

Milano mia, dillo a mia zia, fa tanto freddo,
poveraccia, 'un ne pò' più,
faccio una corsa, me la riprendo,
la porto qui e ce la fo pure svernar.
E nel garage ci ho la Seicento,
una ragazza e poi mia moglie non lo sa,
ammòre scusa stavo scherzando,
luci a San Remo, qui si sta come un bigiù.

venerdì 18 febbraio 2011

giovedì 17 febbraio 2011

Vicino a Roma, a Little Big Horn


Quando ero piccolo m'innamoravo di tutto correvo dietro ai cani
e da marzo a febbraio mio nonno vegliava
sulla corrente di cavalli e di buoi
sui fatti miei sui fatti tuoi

e al dio degli inglesi non credere mai.

E quando avevo duecento lune e forse qualcuna è di troppo
rubai il primo cavallo e mi fecero uomo
cambiai il mio nome in "Coda di lupo"
cambiai il mio pony con un cavallo muto

e al loro dio perdente non credere mai

E fu nella notte della lunga stella con la coda
che trovammo mio nonno crocifisso sulla chiesa
crocifisso con forchette che si usano a cena
era sporco e pulito di sangue e di crema

e al loro dio goloso non credere mai.

E forse avevo diciott'anni e non puzzavo più di serpente
possedevo una spranga un cappello e una fionda
e una notte di gala con un sasso a punta
uccisi uno smoking e glielo rubai

e al dio della scala non credere mai.

Poi tornammo in Brianza per l'apertura della caccia al bisonte
ci fecero l'esame dell'alito e delle urine
ci spiegò il meccanismo un poeta andaluso
- Per la caccia al bisonte - disse - Il numero è chiuso.

E a un Dio a lieto fine non credere mai.

Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn
capelli corti generale ci parlò all'università
dei fratelli tutte blu che seppellirono le asce
ma non fumammo con lui non era venuto in pace

e a un dio fatti il culo non credere mai.

E adesso che ho bruciato venti figli sul mio letto di sposo
che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa
che ho imparato a pescare con le bombe a mano
che mi hanno scolpito in lacrime sull'arco di Traiano
con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia
ma colpisco un po' a casaccio perché non ho più memoria

e a un dio senza fiato non credere mai.



lunedì 14 febbraio 2011

Anadramma 2


Importante dichiarazione del ministro a proposito delle elezioni:

RENATO BRUNETTA:

URNE TRA BATTONE



domenica 13 febbraio 2011

Anadramma


MARIA STELLA GELMINI:

GLI RIMANE I MASTELLA


giovedì 10 febbraio 2011

Damnatio scriptoris


L'altro giorno, Carmilla on Line ha pubblicato una sintesi sul caso Battisti. Il rimando è naturalmente all'articolo in questione (scritto da Valerio Evangelisti in persona), e più in generale a tutta la sezione di quel sito dedicata a Cesare Battisti, alla sua ubiquità e alla persecuzione ed alla vendetta infinita operata in questo paese nei suoi confronti. Quel che vorrei sottoporre un po' all'attenzione è un aspetto particolare di questa vendetta persecutoria, aspetto di cui si parla comunque anche nella "sintesi" di Carmilla. Un aspetto che, se si vuole, è forse meno appariscente di altri, e proprio per questo -a mio parere- più profondo e più grave. Lo si potrebbe chiamare: la Damnatio scriptoris.

Evangelisti si chiede se "essere scrittore sia un'aggravante" in tutta la vicenda, e ne conclude di sì, con pienissima ragione. In tutto il caso Battisti, il fatto che scriva e pubblichi storie è stato sempre utilizzato per completare la sua distruzione, in modo palese e smaccato; e, in questo, parecchi e cosiddetti intellettuali di sinistra si sono distinti per virulenza. Mi ricordo ad esempio della risposta che Corrado Augias diede a un lettore che gli chiedeva, sulla rubrica che tiene o teneva su Repubblica, un parere sul Battisti scrittore. Augias, con disprezzo, bollò le opere di Battisti come romanzetti; una definizione che mi è capitato di rileggere spesso, assieme ai gialletti di Mario Pirani (lui, addirittura, un cofondatore di Repubblica) citati anche da Evangelisti. Naturalmente, come Mario Pirani, è probabilissimo che anche Augias non abbia mai nemmeno letto una riga di un romanzetto, o gialletto, di Cesare Battisti; ma questo è un aspetto del tutto secondario della cosa. Quel che è stato scritto da Cesare Battisti non chiede di essere letto, utilizzando poi tutti i legittimi e liberi strumenti della critica: chiede soltanto di essere stroncato, denigrato, delegittimato a priori. Il suo essere scrittore serve esclusivamente a alimentare la menzogna servile che in Italia ha oramai forza di legge; e si badi bene che ciò accade principalmente in quanto Battisti scrive storie.

Seppure con le ovvie proteste, Cesare Battisti non è certamente il primo e l'unico ex partecipante alla lotta armata che scrive e pubblica libri; solo che, in generale, si tratta di opere di saggistica, di retrospettiva storica di fatti, di analisi; in questo tutti o quasi si sono cimentati, da Alberto Franceschini a Sergio Segio, da Valerio Morucci (attuale interlocutore di Casapound) a Prospero Gallinari. Il portinaio Cesare Battisti, invece, non ha ripercorso un bel niente; si è messo a scrivere storie, pubblicandole in edizione tascabile. Non ha fatto il protagonista che ricorda, ma semplicemente lo scrittore. Inoltre, la saggistica prodotta dagli altri ex partecipanti alla lotta armata proviene quasi interamente da celle di galera, da semilibertà, da anni già scontati, spesso da dissociazioni e pentitismi; da persone, quindi, che sono già state, in un modo o nell'altro, neutralizzate. Cesare Battisti, invece, è stato scelto per incarnare il mostro che, benevolmente ospitato all'estero senza pagare il fio, osava addirittura scrivere storie e farsele pubblicare.


Inaccettabile. La Damnatio scriptoris come elemento non secondario della dannazione di un essere umano nella sua interezza, della sua resa incondizionata. Vendetta e galera. L'unanimità dello sbranare il pericolo universale, come lo chiama Evangelisti. E, in questa Damnatio emergono tutti gli elementi che definiscono e individuano alla perfezione questo paese di servi; quella che sempre Evangelisti chiama, nel suo articolo, l'accozzaglia di fascisti, centrosinistri, post-comunisti, liberali del cazzo, scorreggioni televisivi.

Tutto questo in un paese dove non si esita a dare la patente di "scrittore" a uno come Giorgio Van Straten, tanto per fare un nome. Umberto Eco, poi; Evangelisti lo definisce la caricatura di quello che era un tempo, ma si deve riferire a un tempo molto lontano. Umberto Eco è quello che, dopo il Nome della rosa, ha sfornato una prodigiosa serie di poderose cacate, tra pendoli e pendolini, isole del giorno prima, Baudolini e regine Loane; ed il bello gli è che il qui presente, emerito signor nessuno, si è premurato di leggere tutte queste cose prima di definirle delle cacate. Così come si è premurato di leggere tutto quel che gli è stato possibile reperire di Cesare Battisti, in italiano o in francese. Compreso Ma cavale, che in Italia ovviamente nessuno vedrà mai. Figuriamoci. Un libro diviso in due parti. La prima narrata in prima persona, la ricostruzione del suo arresto a Parigi nel 2004 con un pretesto falso e grossolano, la sua detenzione, la liberazione, le campagne di solidarietà; la seconda, invece, senza nomi. Vaga, lontana, dolorosa, braccata. Una narrazione nella quale la prima percezione che si ha è l'esigenza di non farsi scoprire, di non dare elementi a chi ti sta ricercando in tutto il mondo. La storia di un fuggiasco che vuole raccontare la sua fuga, ma con la tensione di chi non può permettersi di fornire tracce. La prima volta ho letto Ma cavale sugli scalini della stazione di Como, perdendo un treno per non lasciarla a metà; era in libera vendita in una libreria cattolica di Friburgo, in Svizzera.


Non intendo qui né fare un'analisi, sia pur superficiale, delle opere di Cesare Battisti. A chi si interessava del genere noir, il suo nome era noto già da molto prima che nei suoi confronti si scatenasse la caccia al mostro operata con uno spiegamento di forze mai visto prima. Avenida Revolucion è stato pubblicato nel 2003 in Italia, a cura di una piccola casa editrice, la Nuovi Mondi Media di Ozzano nell'Emilia; L'ultimo sparo è in catalogo presso Derive/Approdi fin dal 1998. Nel 1999 L'orma rossa viene pubblicata addirittura da Einaudi; la stessa Einaudi che pubblica con commenti e prefazioni entusiastiche le opere di Fred Vargas, scrittrice che nella campagna a favore di Cesare Battisti ha avuto ed ha un ruolo non indifferente. La Damnatio scriptoris ha, come si vede, dei lati assai singolari. Tipo quello dell'impareggiabile Roberto Saviano, che da ventiquattrenne semisconosciuto firma proprio un appello promosso da Carmilla/Evangelisti per la liberazione di Battisti, salvo ritirare la propria firma circa un mese fa, oramai scrittore perseguitato e icona intoccabile del giustizialismo di casa nostra.

Le storie scritte da Cesare Battisti dovrebbero essere giudicate soltanto per quello che sono. Se qualcuno desidera leggerle, lo dovrebbe fare esercitando il normale spirito critico nei confronti di un'opera letteraria. Poi, a ragion veduta, potrà anche definirle dei romanzetti o dei gialletti; oppure delle belle cose, o anche dei capolavori. Sto dicendo adesso, e me ne rendo conto, delle cose banalissime. Mi sono posto davanti a quei libri come davanti a qualsiasi altra storia scritta, cercando di distinguere quel che c'è dell'autore e della propria vita in quelle pagine, ma senza farne un elemento discriminatorio. Molti anni fa, quando era vox populi che Jorge Luis Borges fosse un "fascista" e che non avesse mai preso posizione nei confronti delle dittature argentine, mi rifiutavo di leggere le sue opere e tranciavo giudizi; poi le ho lette, accorgendomi di quanto stupido e sbagliato fosse stato quel mio modo di fare. Trascinato dai giudizi di una massa più o meno consistente. Così non avrei mai letto il Viaggio al termine della notte di Céline, e non mi sarei divorato i racconti del razzista Lovecraft. Così mi leggo quel che scrive Cesare Battisti, staccandomi persino dalle mie stesse posizioni sulla sua vicenda e riconoscendogli dignità di scrittore, di facitore di storie, di narratore di vita, di pulsioni, di muri, di sogni spezzati.

Gli intellettuali di questo paese sono, con pochissime eccezioni, dei servi. Hanno, inoltre, quella particolare forma di servilisimo che promana dalla paura di essere messi a margine e di finire a loro volta oggetto di scherno, di campagne mediatiche, di censura. Distruggere lo scrittore Cesare Battisti sembra essere divenuto una sorta di salvacondotto, perché il rischio sarebbe a questo punto finire in una lista di proscrizione, in un Index fautorum Caesaris Battisti di cui si sono avuti i prodromi nel Veneto leghista. L'autonomia di giudizio diviene indizio di complicità, quando tutti fanno a gara per accodarsi al coro acritico e dettato solo dal desiderio di non essere considerati a loro volta degli "sporchi terroristi". Questi qui, poi, sarebbero quelli che vorrebbero rappresentare la nostra "coscienza", gli sbranatori della Damnatio scriptoris. Ma, in fondo, la rappresentano benissimo: la coscienza decomposta di un paese in decomposizione.

Gianluca è un ragazzo di vent'anni, che conosco da non molto. Frequentiamo una "cosa", e non saprei definirla altrimenti, in un quartiere sottoproletario di Firenze. È un ragazzo cui piace molto ascoltare quel che gli altri dicono, e in questo rivela la coscienza integra di chi non intende cedere alle sirene e ai battages di regime; nulla a che vedere con gli echi umberti e le spinelli barbare. Un paio di settimane fa, durante una riunione in quel posto, chiede a tutti come sapere qualcosa di più su Cesare Battisti; dice: "Ne sento parlare come un mostro, un assassino, un essere spregevole, e me ne ero quasi convinto; ma non ne so niente". Prendo un pezzo di carta e gli scrivo l'indirizzo di Carmilla on Line; poi mi ci metto a parlare un po'. Troppo poco. Troppo vasta la cosa. Sono le venti, l'ora dei telegiornali che rigurgitano esseri schifosi sulle pastasciutte al sugo di cervello e sui muri che siamo diventati.

mercoledì 9 febbraio 2011

Rifondazioni


Vi ricordate quando questa qui sopra era di "Rifondazione Comunista"?

Faceva l' "antiproibizionista", voleva abolire la pena di morte, fondava Nessuno tocchi Caino. Poi, appunto, nel 1992 viene eletta deputata con il PRC. Entra in Commissione Giustizia e si mette a visitare carceri come una forsennata.

L'anno dopo ha già la sua bella lista civica, a Milano, dove si fa -incredibile!- appoggiare dai radicali. E quando ci sono di mezzo i radicali, si sa già perfettamente cosa succede, no?

Poiché la lista civica della signora in questione non raccatta boccino, nel 1994, quando scende in campo il Cavaliere, eccola approdare immediatamente in Forza Italia. Manco a dirlo, rieccola nella Commissione Giustizia della quale diviene anche presidentessa.

Nel 1995 le viene attribuito il "Premio Silone" per la sua attività in favore dei "diritti umani e civili". Fonda anche il "Circolo delle Libertà Ignazio Silone".

Poi entra nelle giunte comunali milanesi di destra, dice di occuparsi strenuamente delle condizioni delle donne nel mondo, si occupa in particolare della condizione di una donna (la sua) e, infine, diventa Assessore alle attività produttive con la Moratti.

Nell'ottobre del 2010 passa finalmente a Futuro e Libertà, continuando le sue rifondazioni.

L'8 febbraio 2011 la signora in questione, finalmente e definitivamente rifondata con il più tipico percorso del politicante italiano -sinist', dest'!- dona al mondo la sua opinione sul tragico fatto di Roma, che ha visto la morte atroce di quattro bambini Rom.

"È più facile educare un cane che uno zingaro", esordisce la signora in un'intervista a Radio 24. Poi si lancia in arditi paragoni: "Quelli fanno la pipì sui muri, il mio cagnolino non fa la pipì sui muri." A questo punto ci sarebbe ragionevolmente da chiedersi che razza di cagnolino possieda la signora, oppure come lo abbia "educato". La povera bestiola, come tutti i cani, alza la zampa per fare la sua pipì e quella, zac!, le assesta una pedata educativa? E menomale che nessuno doveva toccare Caino; nessuno tocchi canino, casomai. Fossi un cane, mi guarderei bene dal cadere nelle grinfie di questa qui. Oppure mi piacerebbe essere un rottweiler, e anche piuttosto incazzucchiato.

Ma non è finita qui. La signora ha sentito l'imperativo bisogno di lanciarsi in una profonda disamina sociale. "Il presidente Napolitano ha sbagliato perché ha parlato senza cognizione di causa: ha detto che devono avere una casa." In effetti, il presidente Napolitano non deve aver mai avuto problemi abitativi; la signora, invece, è nota per aver abitato costantemente in baracche maleodoranti, indicibili tuguri, unte e fumose stamberghe, sotto i ponti, nelle stazioni, in capannoni abbandonati e, va da sé, in campi. La sua cognizione di causa dev'essere assolutamente eccelsa. Prosegue poi:

E perché gli italiani no? Quelli ci odiano e ci vedono solo come possibilità per sfruttarci o rubarci qualcosa e noi gli diamo la casa. Ma l'italiano che non ha una casa cosa dovrebbe dire?".

Il raggiungimento del sublime. Tutta una vita di antiproibizionismo, di caini da non toccare, di condizioni delle donne, di visitine in galera, di premi siloni, di camere dei deputati, di commissioni giustizia e di palazzi marini per arrivare a dire esattamente le stesse cose dell'ultimo dei leghisti, o del ragazzotto di Forza Nuova. E il bello è che non arrivo affatto a stupirmene!

Dimenticavo: qualora se ne fosse scordato il nome, la signora in questione si chiama Tiziana Maiolo.

Rifondazione razzista; o meglio, Rifondazione italiana.

lunedì 7 febbraio 2011

Il partigiano Guglielmo


All'Isola d'Elba non c'è stata la Resistenza e nemmeno la guerra partigiana; c'è stata la guerra e basta. C'è stata Portoferraio bombardata e distrutta dagli Stukas; c'è stato il siluramento dello Sgarallino. Ci sono stati, però, dei Resistenti. Elbani che, altrove, sono saliti su montagne che non somigliavano nemmeno un po' al Capanne o al Monte Calanche, o che hanno combattuto in grandi città. Uno di questi è morto un anno e mezzo fa, il 17 ottobre 2009, per l'esattezza. Aveva ottantasei anni.

Si chiamava Guglielmo Pacini, e vorrei subito sgombrare il campo da qualsiasi equivoco: non l'ho mai conosciuto. O meglio, non coscientemente. Abitava a San Piero, e magari l'avrò anche visto, nella piazzetta della fontana o in Piazz' i' Chiesa sul muretto, a prendere il fresco e a chiacchierare. Ma non sapevo nemmeno che esistesse. Un vecchio come tanti. E, ovviamente, non conoscevo la sua storia; l'ho conosciuta, in modo del tutto casuale, circa dieci minuti fa. Con queste premesse, raccontarla diventa questione d'incoscienza pura; insomma, tutto quel che mi attiene. Chi racconta storie, sia pure alla bell'e meglio come il sottoscritto, ha sempre presente una cosa fondamentale: è la storia che si racconta da sola. Chi scrive è come se si calasse all'improvviso dentro al suo pozzo, e ne venisse fuori fradicio ancorché non vi fosse prima annegato.

Cosa si fa se si nasce a San Piero in Campo? Si fa il cavatore di pietra. Guglielmo era un cavatore di quella pietra che, probabilmente, non ha la stessa nobiltà di quella di Carrara, ma che ha la stessa durezza. Non so e non posso sapere quali strade lo avessero portato via dall'Elba, anche se posso intuirlo; come ogni piccola isola, l'Elba è un posto dal quale, a un certo punto, si va via. Senza remore. Poi, magari, ci si torna; oppure anche no. Anni in cui andare via, emigrare, era la normalità; e qui mi devo fermare. Devo saltare a un certo giorno, che non è un giorno qualsiasi: al 25 aprile 1945.

Guglielmo Pacini, elbano di San Piero, faceva parte delle Brigate Garibaldi. Chi ve lo avesse portato, e per quali motivazioni e ideologie, lo ignoro e continuerò a ignorarlo; era un ragazzo di ventidue anni che, come centinaia di suoi coetanei, aveva scelto di lottare contro il nazifascismo; altro proprio non mi riesce dire. Essendo nelle Garibaldi, era possibile che si sentisse legato al comunismo, o al socialismo; io, invece, ora non so proprio come andare avanti e bisogna che mi versi un bicchierino di водка, magari alla salute di quel ragazzo e di tutti gli altri che in quel giorno toccavano il futuro. Non era questione che non ci fosse. C'era tutto da fare.

Il 25 aprile 1945, alle ore 7 del mattino, pare che Guglielmo Pacini dovesse restare ragazzo per sempre, e che non dovesse mai più rivedere l'Elba, San Piero, le cave. Per il semplicissimo motivo che quel giorno, a quell'ora, era stata fissata la sua fucilazione, a Milano. La parola fato significa "quel che è stato detto"; la sua radice antichissima è quella del verbo latino fari e di quello greco φημί. A quella stessa ora, il cavalier Benito Amilcare Andrea Mussolini si trova pure a Milano e si prepara a scappare verso Como ("se avanzo seguitemi" ecc.). All'alba, in città scoppia l'insurrezione generale decretata dal CLN; i plotoni di esecuzione fascisti sono fermati, e i prigionieri vengono liberati; tra di essi il cavatore ventiduenne sanpierese Guglielmo Pacini. Per quanti sforzi io faccia, non mi riesce di immaginare la cosa. Sapere di dover morire sotto il piombo a una data ora, contare i minuti, palpare gli ultimi istanti di vita; poi arriva qualcuno e ti dice: sei libero. Magari mezz'ora prima, o dieci minuti. C'è stato comunque chi è morto, in quell'ultimo giorno di guerra. No, davvero non è possibile immaginare una situazione di questo genere.

Arriva la Liberazione; la storia del cavalier Mussolini la conosciamo tutti. Il camion tedesco, l'arresto, la Petacci, Dongo, Giulino di Mezzegra, il colonnello Valerio. La conosciamo tutti perché, questa, è Storia ragionevolmente appurata nonostante tutti le ipotesi, controipotesi, clamorose rivelazioni, smentite e quant'altro. In questa storia, invece, non si sa cosa abbia fatto il partigiano Guglielmo nei quattro giorni tra il 25 e il 29 aprile 1945. Avrà, probabilmente, vagato per Milano; avrà festeggiato; si sarà comprensibilmente ubriacato di vinaccio; avrà fatto l'amore con una ragazzotta; avrà sventolato la sua bandiera; avrà fatto qualsiasi cosa, personale e collettiva, che gli ribadisse d'essere ancora vivo. Non credo che sia stato facilissimo convincersene, nonostante l'atmosfera. Nel frattempo, il 28 aprile, Mussolini, la Petacci e gli altri gerarchi repubblichini vengono spediti all'altro mondo, e qui si torna alla Storia. Il 29 aprile, però, li ritroviamo tutti insieme. Il partigiano Guglielmo scampato alla fucilazione, i fascisti fucilati e Claretta Petacci. Sono tutte e due nella stessa piazza, la storia e la Storia; piazzale Loreto.

La stessa piazza, è oltremodo bene ricordarlo, dove qualche mese prima 15 partigiani erano stati fucilati, ed i loro cadaveri straziati tenuti esposti al ludibrio per un giorno intero su un marciapiede. Occhio per occhio. Al "Duce", alla sua amante e agli altri gerarchi fu riservato lo stesso trattamento. Prima esposti sullo stesso marciapiede, e nelle medesime condizioni; poi appesi per i piedi a ciò che venne genericamente definito un "traliccio", e che invece era la struttura di una stazione di benzina. E qui succede una cosa; anzi, un intreccio di cose.

Claretta Petacci, l'amante del "Duce", subisce lo stesso destino degli altri; solo che, essendo una donna, indossa una sottana. In quella posizione, scomodissima anche per un cadavere, l'indumento si rovescia e la lascia nuda. Il partigiano Guglielmo era stato destinato a far parte di un cordone di sicurezza che impedisse alla folla inferocita di infierire sulle salme dei fascisti; un'ipotesi alquanto realistica. Una giovane partigiana non ce la fa, e decide di risparmiare a quella donna un'umiliazione senz'altro inutile, anche se non è dato sapere se, a parti invertite, una giovane fascista avrebbe fatto lo stesso con una partigiana ammazzata. La giovane partigiana va a chiedere a una compagna se ha una spilla da balia, e questa gliela dà; poi chiede aiuto per salire sul traliccio. Si fa avanti il partigiano Guglielmo, e insieme alla giovane partigiana danno la scalata alla struttura; è il momento fissato nella foto sotto il titolo. Insieme fissano con la spilla la sottana di Claretta Petacci, morta, coprendola. La storia sarebbe, in fondo, finita qui.

Non interamente. Prima di tutto, anche la giovane partigiana che salì sul traliccio insieme al cavatore elbano Guglielmo Pacini ha un nome e un cognome. Era nata a Torino il 14 giugno 1921, sette anni prima del Che Guevara; da ragazzina era stata un'abile nuotatrice. Si chiamava Carla Voltolina, e questo doveva essere il suo aspetto a quell'età:


Non molto tempo dopo si innamorò di un altro partigiano, che sposò. Con ingenua fierezza, mi sono sempre compiaciuto di dire che siamo nati lo stesso giorno: il 25 settembre. Si chiamava Sandro Pertini. Anche quando fu eletto presidente della repubblica, la Carla continuò a fare la sua vita; era diventata psicologa, e negli ultimi tempi lavorava a Firenze, all'ospedale di Santa Maria Nuova. Una volta la incontrai sull'autobus, alla fermata di via Martelli davanti alla libreria Marzocco. Molti anni fa, in un altro secolo e probabilmente anche in un altro mondo.

Il partigiano Guglielmo ebbe a dire, e c'è motivo di credergli, che in quelle ore a piazzale Loreto aveva avuto più paura che nei mesi e mesi passati a combattere in montagna. Ora mi vado a pigliare un altro bicchierino di არყის, poi séguito.

Sono profondamente convinto di due cose.

La prima è che il trattamento riservato a Mussolini e a quegli altri appesi sia stato del tutto giusto e doveroso. Le morali revisioniste non mi toccano manco di striscio, nemmeno per quanto riguarda la Petacci. Ha condiviso un destino, e stop; non vedo perché dovrebbe esserle riservato un trattamento di favore. Rimanere fedeli al proprio uomo fino alla fine non è , poi, necessariamente un titolo di merito e di ammirazione; altrimenti lo stesso dovrebbe essere detto di Frau Eva Braun o della signora Elena Petrescu coniugata Ceauşescu.

La seconda è che, sicuramente, in mezzo a quella folla inferocita che desiderava infierire sui cadaveri dei fascisti, ci saranno stati molti che fino a pochi mesi prima li osannavano e gridavano "Duce, Duce" nelle piazze. Ma non è una cosa di cui stupirsi troppo, ed è propria di ogni dittatura. Se proprio devo scagliarmi contro gli italiani e le loro attitudini, non lo farò per questo; è successo sempre, e ovunque. Quando cade il tiranno, i primi a volerlo sbranare sono i suoi fan di un tempo; salvo poi tornare a rimpiangerlo. E, comunque, quando si vive sotto un'occupazione feroce e ti dicono di andare a berciare in piazza, ci vuole coraggio a non farlo. Di solito partono le scariche di fucileria e le stragi:


Ora sì, la storia e la Storia sono terminate.

Non so quando il partigiano Guglielmo sia, finalmente, tornato all'isola d'Elba. Forse avrà passato la vita altrove per tornarvi in età avanzata; o, forse, ci sarà tornato subito. La giovane partigiana che era salita con lui sul traliccio andò per una strada, lui per un'altra. Si dice che non parlasse volentieri di quell'episodio, Guglielmo, perché temeva di non essere creduto; magari non sapeva nemmeno di essere stato fotografato.

E non so nemmeno come definire quel gesto, perché non mi piace la parola "pietà". Forse, chissà, un gesto di elementare civiltà in quelle ore che, comunque, non possono essere giudicate con i metri comuni; o, forse ancora, e più semplicemente, il gesto di due ragazzi che non avevano perso il senso dell'umanità pur davanti a chi di umanità non ne aveva mostrata.

Prima o poi, comunque, il partigiano e cavatore Guglielmo Pacini sarà rimontato sul traghetto da Piombino, per tornare finalmente a San Piero. Ne avrà avute di cose in testa, e avrà avuto in sé anche la necessaria forza per vivere una vita normale, appartata, magari mantenendo i suoi ideali o magari anche abbandonandoli. Di cose ne succedono, durante una lunga vita; specialmente quando, in un dato momento, quella vita sarebbe dovuta terminare invece presto, e che è continuata perché così ha deciso il destino.

A Marina di Campo, alcuni anni fa, uno spazio ricavato dietro al fosso del Vapelo, proprio dove abitava mia zia Bastiana dopo che era tornata dall'Argentina, fu adibito a parcheggio. Fu deciso di intitolare quello spazio "piazza Sandro Pertini", e allo scoprimento della targa fu invitata Carla Voltolina. Era presente, si dice, anche Guglielmo Pacini. La avvicinò, facendosi riconoscere; lei volle dargli una delle rose rosse che le erano state appena consegnate dal sindaco (il mio ex professore di matematica delle vacanze, uno che tentò eroicamente e inutilmente di farmi entrare un po' di algebra nella zucca). Spero che quella rosa abbia seguito il partigiano Guglielmo nella tomba, e penso a quando di quei ragazzi di allora non ne resterà neanche uno.

E cazzo, e allora lo vendo anch'io!


Minchia, stracataminchia, sanguiddìo e madonnabùnga, un blog venduto per 315 milioni di dollari!

Sì, d'accordo, è il famoso Huffington Post, 25 milioni di visitatori al mese, unanimemente definito autorevole, eccetera eccetera; ma trecentoquindici milioni di dollari, di cui trecento in contanti! Cifre del genere sarebbero capaci di generare incubi eterni; provate a immaginare se ve le chiedesse l'Equitalia, che so io. Eppure la signora Arianna Huffington se li beccherà tutti quanti. E allora, cazzo, quasi quasi lo metto in vendita pure io, il blog. Sarò moderato nelle pretese: di milioni di dollari me ne basterebbero una decina, facciamo quindici. Mi metto a posto per quel che mi rimane da campare, mando in culo centodiciotti, ambulanze e quant'altro, mi fo la casina all'Elba, rimetto in sesto il CPA, acquisto dal Comune il largo Martiri delle Foibe e lo dedico a Juan Rodolfo Wilcock, e me ne avanzano pure parecchi. Non importa essere AOL, basta che facciate una cooperativa o un gruppo d'acquisto; che saranno mai dei miseri 15 milioni di dollari, e se poi sono di euri meglio ancora!

Leggo sull'articolo di Repubblica che il blog della signora Huffington ha avuto un ruolo importante nell'elezione di Obama e che sarebbe schierato a sinistra; pur non intendendo arrivare a tanto, potrei comunque fare qualcosa per contribuire all'elezione di Sassicaia Molotov a sindaco di Livorno, o di Red a ambasciatore di Sua Maestà Britannica presso la Santa Sede, oppur meglio ancora di Iononstoconoriana a rappresentante esclusivo della catena di sexy shop "Gualtiero Mazzacurati" nella Repubblica Islamica dell'Iran Funestan (cantami, o diva). Insomma, un affarone per tutti. Sono oramai anni che lavoro a gratis, senza nemmeno mettere l'AdSense di Google, e sarebbe ora di cominciare un po' a mettere a frutto tutta questa popo' d'attività, di nottate insonni, di taroccamenti al Paint, d'ogni cosa.

Naturalmente, con grande benevolenza, nel pacchetto in vendita sarebbe compreso tutto quanto l'Asocial Network: sia il Treggia's Blog (convenientemente rinominato Old Wrecks Blog - Old Cars around the World), sia la Pampalea (che ha la stoffa dell'opinionista). Per il pagamento (rigorosamente cash) potete passare direttamente in via dell'Argingrosso. Mi raccomando la puntualità. Lo Huffington Post può cominciare pure a tremare, specie quando sarò abbastanza autorevole da sostenere la candidatura di Dan Peterson alla presidenza USA. Per me, numero uno!